di Luca G. Castellin *
Nel 1976, mentre richiama alla memoria l’attentato al treno Italicus, sul quale persero la vita dodici persone, Claudio Lolli celebra la cruciale (e ritrovata) centralità della piazza, nel caso specifico Piazza Maggiore a Bologna, che torna a essere un luogo (genuinamente) politico in cui ritrovarsi insieme in modo non artificioso. L’esperienza che il cantautore emiliano racconta in Piazza bella piazza è certamente assai differente rispetto alle numerose proteste che occupano la scena della nostra attualità quotidiana. Dal Cile all’Iran, da Hong Kong a Parigi, fino ad arrivare all’Italia, la piazza sembra tornata a essere protagonista. Ma è davvero così?
Per molti versi, sembrerebbe proprio di sì. Ciononostante, appare più opportuno procedere con cautela nell’analisi di fenomeni così disomogenei. Innanzitutto, al fine di evitare comode – ma pericolose – semplificazioni, occorre sottolineare che le varie manifestazioni non solo hanno origine da cause socio-economiche molto diverse, ma prendono anche forma in sistemi politico-istituzionali alquanto differenti. La contestualizzazione di tali fenomeni – come testimoniano i contributi di Agostino Giovagnoli e Riccardo Redaelli – risulta fondamentale per poterli realmente comprendere. Ciò, pertanto, non consente di poterli racchiudere in un unico processo transnazionale di rivolta.
D’altronde, potrebbe risultare altrettanto fuorviante considerare i giovani come unici protagonisti delle proteste. Se tale componente è indubbiamente presente, soprattutto a causa delle dinamiche demografiche di alcuni dei Paesi coinvolti, nondimeno potrebbe essere ingannevole trasformare le manifestazioni in un fenomeno generazionale. Piuttosto, sembra più opportuno sottolineare che alcune di queste espressioni di rivolta sono caratterizzate da rivendicazioni economico-sociali (come nel caso di Cile, Iran e Francia) in una clima di crescenti disuguaglianze, mentre altre evidenziano una dimensione più politica (per esempio, nella lotta per i diritti civili a Hong Kong o nelle manifestazioni contro il cambiamento climatico). Ancora differente, invece, è il caso delle “sardine” in Italia. Un movimento che non mette in scena proteste anti-governative, ma che manifesta contro una certa retorica dell’opposizione.
Un ulteriore – forse, fondamentale – aspetto da prendere in considerazione sono soprattutto le prospettive che espressioni di protesta tanto differenti potranno assumere nel prossimo futuro. Prospettive che vadano al di là dell’effetto mimetico veicolato – come ha sottolineato Fausto Colombo – dai media. I movimenti geneticamente assumono uno stato fluido, quasi gassoso. Sono organizzati in forma reticolare. Pertanto, non esprimono leadership chiare e durature, né strutture organizzative stabili. Inoltre, quando non vengono repressi violentemente e prematuramente dai regimi all’interno dei quali si sviluppano, evidenziano un ciclo vitale – oltre che di esposizione mediatica – paraboidale. Dopo aver raggiunto lo zenith della protesta e della visibilità sono destinati – proprio per il loro carattere movimentizio – a esaurirsi.
In maniera un po’ provocatoria, forse persino paradossale, si potrebbe ipotizzare che le differenti proteste che continuano a divampare in tutto il sistema globale non siano altro che l’altra faccia della medaglia di quel «risentimento» contro quelle promesse non mantenute del progresso, che già sembrano aver dato origine tanto all’ascesa dei populismi, quanto alle recenti fortune dei fondamentalismi religiosi. Insieme a fattori puramente “materiali”, come la crescente disuguaglianza, sono all’opera anche fattori “culturali” o “spirituali”, come la paura o il rancore, che sembrano destinati ad accompagnarci ancora a lungo in quel «malessere» contemporaneo che caratterizza – secondo un’espressione dell’intellettuale indiano Pankaj Mishra – la nostra «età della rabbia».
* docente di Storia delle dottrine politiche, facoltà di Scienze politiche e sociali, campus di Milano