Faisal, Nasima, Oranous, Fariha, Shaheen, Sakhi studiano da giornalisti. E impazzano in Italia. Sui media nazionali, dalla Rai al Corriere della Sera, da Avvenire a Radio Vaticana. «Non ci sembra vero, siamo più che felici», dicono in coro tutti e sei. E tutti e sei sorridono, si concedono, parlano e mostrano questa loro felicità, mista a determinazione e stupore insieme, nel trovarsi nell’aula Pio XI in Università Cattolica, a conclusione del progetto “Women to be”, fortemente voluto da Fondazione Fondiaria Sai, Provincial Reconstruction Team dell’Esercito italiano ad Herat, Ambasciata italiana a Kabul, Università di Herat e master in Giornalismo dell’Università Cattolica.
I sei ragazzi sono i giornalisti prescelti per concludere il loro percorso di studi in Italia, dopo due anni di formazione in loco, con professionisti della comunicazione afghani, italiani e stranieri. Obiettivo: mettere loro in mano fotocamere e telecamere; aiutarli a capire come usarle in un contesto spesso ostile alla comunicazione; rendere note le difficoltà delle minoranze etniche, di genere o sociali nel Paese; fare conoscere agli occidentali realtà altrimenti insondabili per la difficoltà di penetrarle. In sintesi: dare loro un futuro, una chance per rimanere nel Paese e crescere, nonostante la guerra, nonostante tutto. «Per questo motivo abbiamo fatto in modo di concludere il loro programma di studi con un lungo stage in Italia, nei media principali: radio, tv, quotidiani nazionali», dice il professor Marco Lombardi, docente di sociologia e direttore del Master in Giornalismo. Insieme a lui, Ruggero Eugeni, direttore di Almed, Alta Scuola in Media, comunicazione e spettacolo, sottolinea «l’importanza dell’operazione di internazionalizzazione dell’Università Cattolica, specie del settore dei media; un percorso che adesso guarda a Est».
I giovani afghani, però, guardano a Ovest e si stupiscono. «Questo mondo è molto diverso, le persone sono molto più simpatiche di quanto immaginavamo, conoscendo gli stranieri che occupano il nostro Paese. E poi le donne sono libere, qui». Fariha Khorsand lo sapeva già, ma adesso lo vede. La sua è una famiglia liberale, la madre è un’insegnante ad Herat. Conosce un’apertura di vedute che non è comune alle sue coetanee in Afghanistan. Insieme alle sue compagne (ragazze ventenni e minute ma d’acciaio) lo ripete in tutte le salse: «Siamo fortunate ad essere qui. In Afghanistan le bambine, se vanno a scuola, portano a termine solo l’educazione primaria». Loro, in Cattolica, fanno vedere immagini e fotografie girate in luoghi di difficile accesso, su temi non facili da trattare. Fariha si è infilata in una fabbrica della filiera tessile: le donne puliscono e cardano la lana in condizioni di sostanziale schiavitù; Shaheen Poya ha raccontato casi di auto-immolazione documentati all’ospedale di Herat: donne che si danno a fuoco, vittime di una violenza domestica che non perdona; Nasima Hamdardad ha solcato i campi di zafferano della provincia di Herat per filmare le lavoratrici: il fratello non la lasciava mai, il rischio era quello di subire violenza; Oranous Honib ha raccontato il dramma sommerso dei migranti interni al Paese attraverso la storia di Negar, vecchissima, povera e con una intera famiglia sulle spalle.
Ma questi giovani non si occupano solo di donne e non sono solo donne. Sakhi Ataye Ghulam ha trent’anni e sogna di diventare giornalista sportivo. Infiamma la platea di studenti parlando italiano, mostrando un video sul Fullcontact, lo sport marziale praticato da alcune donne in Afghanistan e dice convinto: «Dobbiamo lavorare molto per il nostro Paese nel futuro». Un Paese che ha ricostruito la costituzione dopo il 2011 e che, dalla nascita del giornalismo locale nel 1906, oggi conta 100 radio private, 50 tv, 100 giornali, 30 siti nazionali. Peccato che, come ha dimostrato Faisal Karimi, il giornalista del gruppo già docente all’università di Herat, «in Afghanistan non c’è sicurezza per nessuno e soprattutto per i giornalisti: nell’ultimo anno sono morti in 12, 19 sono stati assassinati, 8 feriti. Senza parlare della gente in prigione». Una sfida difficile li attende, al ritorno dal viaggio in Italia. Quella di immergersi nuovamente in una realtà di precarietà e guerra che non ha nulla a che vedere con la nostra normalità ma che per la gente del luogo è la norma. Del resto, chiedendo loro cosa mancherà di più dell’Italia, la risposta non è per niente banale: «La libertà, ci mancherà la libertà. Ma la pizza no: non ci piace affatto».