Da un po’ di tempo è entrato nel linguaggio comune di genitori ed educatori dire di un bambino: «È iperattivo». Ma occorre distinguere tra l’uso comune del termine e quello clinico, spiega il professor Alessandro Antonietti, direttore del dipartimento di Psicologia dell’Università Cattolica, e coordinatore di un corso sul tutoring psicoeducativo legato all’aspetto patologico del problema, che prenderà il via a gennaio 2015. «Quando si dice che un bambino è iperattivo, in genere vogliamo indicare che è pieno di energia, vivace, impegnato in molte attività - afferma - . Oppure, con una connotazione negativa, alludiamo a un comportamento frenetico, senza soste, talvolta disturbante. In questo senso l’iperattività è una caratteristica personale e non ha nulla di “patologico”».
Quando parliamo di iperattività in chiave clinica? «Quella che rientra nell’ADHD (sigla inglese per Disturbo da Deficit di attenzione e iperattività) è una difficoltà che un bambino o ragazzo - ma può permanere anche nell’età adulta – sperimenta nella pianificazione, gestione e controllo dei propri comportamenti. La difficoltà è pervasiva: si presenta in contesti differenti e qualunque sia l’interlocutore del bambino. In questo senso il bambino iperattivo non riesce a portare a compimento le azioni intraprese; passa da un’attività all’altra; è maldestro nei movimenti; è irrequieto e compie movimenti ripetuti senza scopo (batte i piedi, giocherella con le mani ecc.); non riesce a controllare l’impulso a correre, saltare, arrampicarsi, agitarsi; parla senza sosta e spesso a sproposito; è invadente e interrompe le conversazioni altrui; non riesce ad attendere e a rispettare i turni».
Qual è la discriminante per parlare di bambino iperattivo? «Comportamenti come quelli che ho descritto non sono insoliti in bambini particolarmente vivaci, ma ciò che fa pensare alla presenza dell’ADHD è la loro intensità e onnipresenza, come se il bambino non potesse, suo malgrado e soffrendo per questo, esercitare un controllo su di essi. La conseguenza è che il bambino non riesce a manifestare tutte le sue potenzialità.
Come si diagnostica il disturbo? «I sintomi dell’ADHD si collocano, come avviene per altri disturbi, su un continuum che va dalla normalità alla patologia e quindi non c’è un punto critico che permette di stabilire che sotto di esso non si rientra nella sindrome e sopra sì. Affinché si possa parlare di iperattività come disturbo occorre che uno specialista proceda a una diagnosi basata sulla rilevazione di molti elementi, anche riferiti da osservatori diversi e indipendenti».
I genitori possono percepire la presenza prima di insegnanti ed educatori? «La diagnosi di ADHD non può essere compiuta prima dell’ingresso nella scuola primaria. Penso sia importante però chiarire che l’ADHD, come altri problemi che riguardano l’infanzia e a differenza di certe malattie, non ha delle cause o precursori precoci che dapprima operano in maniera invisibile e poi inevitabilmente si manifesteranno nel disturbo raggiunta una certa età. Vi sono sì dati di ricerca che hanno messo in luce, in termini statistici, anomalie strutturali e funzionali nel sistema nervoso dei soggetti con ADHD, ma ciò non deve portare a una visione deterministica, sia perché il sistema nervoso è altamente plastico durante l’infanzia (e quindi può trasformarsi) sia perché il collegamento tra caratteristiche dei processi cerebrali e comportamenti non è così diretto. In genere quelle che, quando sarà possibile compiere una diagnosi, saranno le caratteristiche distintive del disturbo, erano presenti anche prima».
Un “destino” segnato? «No, non vanno intese in questo modo. Su tali caratteristiche si può agire, direttamente e indirettamente. In genere si tratta di tendenze – come quelle precedentemente ricordate (agitazione, impulsività ecc.) – che non rischiano di passare inosservate e sulle quali i genitori possono operare un’azione di contenimento (per i comportamenti che vanno inibiti) e di incentivazione (per quelli che vanno stimolati), anche soltanto per fini educativi (ossia per favorire lo sviluppo di importanti capacità) e non necessariamente “preventivi”. Questo compito può essere affrontato dai genitori senza ansie (“oddio, se non cambia avrà l’ADHD”) ma neanche senza leggerezza (“crescendo maturerà”), all’interno del progetto di accompagnamento alla crescita che i genitori dovrebbero sviluppare in relazione ai figli.
Come proseguire, nell’ambito familiare, il percorso psicoeducativo intrapreso con il bambino o l’adolescente? «Nell’intervento indirizzato ai bambini con ADHD è importante la coerenza tra le diverse figure di adulti con essi si trovano a interagire. Le ricerche suggeriscono che gli interventi più efficaci sono quelli multimodali che prevedono il coinvolgimento di specialisti, genitori e insegnanti. Queste figure devono condividere alcuni principi di condotta e modalità di gestione degli ambienti, degli oggetti, dei comportamenti e impegnarsi a realizzarli ciascuno nel proprio ambito (casa, scuola)».
Facciamo qualche esempio. «Il modo di predisporre gli spazi in cui il bambino deve svolgere i compiti (per esempio evitando la presenza di distrazioni), la scelta dei tempi in cui condurre certe attività, le routine di comportamento da seguire, le forme di comunicazione con il bambino dovrebbero essere le medesime da parte di genitori e insegnanti».
Che effetto produce questa cooperazione? «Il tentativo di sviluppare nel bambino un’organizzazione esterna e interna viene rinforzato da più parti e in maniera sinergica, con risultati soddisfacenti. Esistono dei programmi che gli esperti indirizzano a genitori (parent training) e docenti (teacher training) per cercare di costruire queste alleanze tra adulti».
È una sensazione o il Deficit di attenzione e iperattività sembra essere sempre più presente oggi che in passato? «È difficile confrontare l’incidenza dei disturbi in età evolutiva in decenni diversi perché spesso cambiano i criteri diagnostici (se non addirittura la definizione del disturbo). Inoltre in genere con il passare degli anni aumenta anche l’informazione e la sensibilità rispetto a tali disturbi e quindi manifestazioni che prima non attiravano l’attenzione lo fanno ora, producendo un innalzamento delle percentuali stimate. Il fatto infine che in presenza di una diagnosi la scuola, in base a recenti pronunciamenti legislativi, sia chiamata ad adottare specifici provvedimenti rende più frequente il rivolgersi alle strutture deputate per ottenere, sulla base della diagnosi ricevuta, questi tipi di attenzioni, e anche questo produce un incremento di casi diagnosticati.
Ma c’è un però… «Al di là dei dati epidemiologici, è osservazione comune, da parte di coloro che hanno a che fare con i bambini, che questi, rispetto al passato, sono più irrequieti, impulsivi, scoordinati. Ma forse se come adulti confrontiamo i nostri modi di comportarci attuali con quelli che avevamo anni addietro, anche noi ci accorgiamo di essere diventati maggiormente “frenetici”. Il soffermarsi a riflettere, analizzare, approfondire, il comunicare con calma cercando le espressioni appropriate, per fare alcuni esempi, sono atteggiamenti che oggi è difficile assumere e i bambini, come gli adulti, sono soggetti al medesimo trend».
Quindi vita più frenetica vuol dire più rischio di iperattività? «Gli stili di vita - cambiati nella direzione dell’accelerazione dei tempi, dell’aumento delle stimolazioni e delle richieste, dello svolgimento contemporaneo di più attività - sono probabilmente una delle ragioni di questo generalizzato viraggio verso l’iperattività. Anche il numero inferiore di opportunità (di giochi, di intrattenimenti, di cibi ecc.) che nel passato erano a disposizione dei bambini - così come più precise, condivise e rispettate norme di comportamento – rendevano più facile strutturare un’organizzazione mentale interna. Oggi la crescita è più difficile. Come il compito degli adulti».