di Pasquale Ancona
Da piccolo, Daniel Zaccaro voleva diventare Lupin, un ladro che agiva per fare il bene. A dieci anni l’Inter decide di comprarlo, perché da ragazzino con i piedi era fortissimo. Poi l’adolescenza, le difficoltà del quartiere, la rapina e il carcere minorile. Fuori, dopo qualche tempo, una tentata rapina che lo porta a San Vittore. Lì la sua vita cambia del tutto, fino alla laurea in Scienze della Formazione, con una tesi sul rapporto padre-figlio nell’Odissea. Oggi è il ritratto della normalità, un ragazzo sereno che sorride consapevole al suo passato.
Posso chiederti di raccontarmi la tua storia? Per quali reati ti hanno arrestato?
Per rapina in banca a 17 anni e poi successivamente per tentata rapina.
Dopo un percorso minorile, da maggiorenne mi hanno rifermato e rimesso dentro a causa dei precedenti.
Ma tu frequentavi la scuola?
Sì, fino a 17 anni. In quarta superiore mi hanno arrestato e ho mollato la scuola. Poi sono andato in una comunità di recupero, e finito il percorso sono ritornato a casa, nel mio quartiere.
Ma qual era il tuo rapporto con la scuola prima di tutto ciò?
La odiavo. La scuola era la morte per me. Forse perché facevo idraulica, una cosa che non mi piaceva. Durante le superiori non avevo alcuna voglia di andare. Zero. Andavo solo perché dovevo, di sicuro non per mia volontà. Non mi piaceva la mia classe, non mi piacevano i professori: nulla di nulla.
E poi come sei arrivato a voler fare l'università?
Ci sono arrivato perché mentre ero a San Vittore, durante una delle varie attività alternative, ho conosciuto una volontaria che proponeva un cineforum ai detenuti. Qui, la maggior parte di noi era straniera, e nonostante questo, lei ci proponeva dei film un po' pesanti, difficili. E io continuavo a chiedermi perché suggerisse queste cose a dei ragazzi che quasi sempre non capivano nemmeno l’italiano. Poi questa domanda l’ho posta a lei, che vedendomi interessato, “sveglio”, come diceva, mi ha chiesto se avessi mai pensato di tornare a scuola e di fare l’università. Pensavo mi prendesse in giro, perché in quel momento l’università di certo non era il mio primo pensiero. “Ti potrei aiutare io”, mi ha proposto.
E tu?
E io, grazie a Fiorella, uscito di lì ho ripreso la scuola e ci ho provato, anche all’università. E durante tutto il percorso sono stato seguito da lei. Però, per me, credo che fosse semplicemente arrivato il momento. Anche mentre ero al Beccaria, al carcere minorile, me l’hanno proposto tante persone, ma evidentemente non ero ancora pronto. Quando è arrivata lei ero in qualche modo predisposto a un cambiamento concreto. Lei mi ha fatto conoscere un'associazione che si chiama “Portofranco”, che aiuta i ragazzi a studiare, e da lì è iniziato tutto. È stata fondamentale nella mia vita, perché mi ha suggerito una chiave di lettura per lo studio che io non conoscevo.
Come ti ha aiutato? Quando studiavo, a parte le solite materie che non piacciono a nessuno, la matematica per intenderci, riuscivo ad apprezzare quello con cui mi confrontavo. Sentivo mie le materie umanistiche, lei cercava di farmi capire fino a che punto c'entrassero con la mia vita. In quello che studiavo cercavo di rintracciare me stesso, il mio passato, i miei desideri. E quando lo senti che una cosa ti appartiene, studiarla è quasi il risvolto naturale.
Ma la tua scelta del corso di laurea in Scienze della Formazione quanto è stata dettata da questa figura o dagli educatori in generale?
Tantissimo. Perché sia quando ero in carcere, che dopo, mi hanno sempre riconosciuto la capacità di saper comunicare anche con gli altri detenuti. Di fare, in qualche modo, l’educatore dall’interno. E capitava spesso che fossi io stesso a dar loro una mano, gli educatori contavano su di me. Questo ha fatto la differenza. Diciamo che quando gli educatori mi hanno portato la loro vita ad esempio, ho scoperto che c'era un modo di dire “bello”, che fa sì che tu rimanga affascinato da questo modo di essere e di fare. E ti poni delle domande, ti dici “vorrei essere come lui o come lei”.
Credi che questo corso di laurea abbia contribuito a educare te oltre che formarti a diventare un educatore?
Assolutamente sì. Ma in realtà il mio percorso è stato un po' diverso da quelli che studiano. Tante volte, mi ritrovavo a studiare cose che avevo vissuto, e questo faceva la differenza. Studiare dava una forma a tutto ciò che avevo vissuto, o magari anche solo un termine tecnico per definirlo, un metodo.
Di cosa tratta la tua tesi di laurea?
Del rapporto padre-figlio nell'Odissea, tra Ulisse e Telemaco. Sentivo che mi apparteneva molto, mi sentivo un po’ Telemaco e un po’ Ulisse. E Fiorella, la mia educatrice, è stata la mia Atena, la dea che corre in aiuto di Ulisse. Sentivo che la mia storia era un po’ un’Odissea. A lei ho dedicato la mia tesi, a lei e al professor Giuseppe Mari che è scomparso poco più di un anno fa. Con lui mi ero messo d’accordo per fare la tesi su questo argomento, poi una settimana dopo il nostro incontro è venuto a mancare. Al tempo decisi poi di rimanere fedele all’idea, anche se per un periodo mi sono bloccato e non riuscivo a scrivere, ad andare avanti perché per me era anche lui un padre, un po’ padre accademico, universitario, se vogliamo.
Credi che il tuo passato abbia influito nella tua quotidianità universitaria?
In realtà no, e ti faccio un esempio. Ieri sera sono uscito con un ragazzo che ha la mia stessa storia, forse più bella, forse più difficile, più sofferente. Lui è stato con me a San Vittore, aveva una pena molto più alta. In questo momento si sta laureando in economia alla Bocconi. E lui mi dice spesso “Dani io non so come fai a raccontare la tua storia, io mi sento in difficoltà”. Io invece penso che il mio passato, per me, è sempre stato un valore aggiunto. Non che lo raccontassi al primo che passa, però quando stringevo una relazione abbastanza intensa con qualcuno, ne parlavo, mi raccontavo. Io non mi sono mai sentito in difficoltà. Le relazioni che ho stretto qua dentro sono sempre state reali, ho costruito amicizie che dureranno per sempre.
Sembra quasi che tu voglia bene all’Università Cattolica.
Io vivo il mio rapporto con questa università un po’ come quello con le istituzioni, col padre, con Dio stesso. Mi sono sentito sempre abbastanza aiutato, protetto. Anche perché in questi spazi si respira un’aria differente. Ho scelto questa università perché sapevo che anche qui potevo continuare a ricercare Dio. Come un percorso, una dimensione che mi ha permesso di entrare nelle profondità della mia sofferenza e che ti fa porre domande molto importanti. Qui ho avuto anche la possibilità di approfondire queste domande, studiando i rapporti, il pensiero, il metodo. A questa università devo tantissimo perché mi ha aperto un mondo su tantissime cose che non hai avuto modo di conoscere diversamente. Anche la stessa teologia: se presa col piglio giusto, come dicevo, se riesci a capire che riguarda la tua vita, così come quello che studi sui libri di pedagogia.
Ultima richiesta. Una confessione di un minuto alla Pm che ti ha seguito durante il tuo percorso.
Io sono solo il tipo che dice le cose, belle e brutte. Il mondo da cui provengo io ha sempre visto i giudici e i pubblici ministeri come dei robot cattivi. Quello che a me fa sempre pensare è il suo esempio, il suo impegno, tutto quello che ha messo anche per me, e che mi ha fatto completamente cambiare idea. Ho imparato a rendermi conto che dietro una toga c'è una persona, e quando l’ho vista tra i banchi durante la mia seduta di laurea mi ha davvero spiazzato. La cosa che spiazza, di lei, è soprattutto la voglia che ha avuto di conoscere, di esserci, come dire “non ci siamo solo nel male, ma possiamo anche esserci nel bene”. Credo che la dottoressa Fiorillo debba essere di esempio ai suoi colleghi. È una persona straordinaria oltre che un giudice. Quando andiamo a parlare insieme nelle scuole, io rimango incantato da come parla, dalla sua intelligenza, dalla sua cultura sterminata. È una cosa che ti incanta, e che da detenuto non riesci quasi mai a vedere.