Che la comunicazione sia cambiata lo notano tutti. Che cambino le professioni della comunicazione è meno visibile. Almeno per il consumatore che non vede i profondi mutamenti che riguardano le figure richieste dal mercato e le competenze a esse associate. Un processo fluido e complesso, poco o per nulla indagato.
A fotografarlo ci ha pensato il primo Libro bianco sulle professioni della comunicazione (FrancoAngeli, 2017) realizzato dall’Alta Scuola in media, comunicazione e spettacolo dell’Università Cattolica (Almed). È il primo tentativo di mappare dinamicamente il nuovo mercato del lavoro dei media e della comunicazione in Italia. Uno strumento rivolto tanto a studenti che si orientano verso questo settore professionale quanto a formatori e agli stessi professionisti della comunicazione, in particolare nel settore delle risorse umane.
Il volume si basa su quattro recentissime ricerche - due delle quali di durata biennale - e su un gran numero di interventi e consulenze da parte di professionisti, aziende e associazioni del settore. Un progetto guidato da Nicoletta Vittadini, docente di Sociologia della comunicazione e di Web e social Media, e Ruggero Eugeni, docente di Semiotica dei media e direttore di Almed.
«La grande richiesta che viene dal mercato del lavoro è quella di una ibridazione di competenze» afferma il professor Eugeni. «Questo vuol dire flessibilità, soft skills e aggiornamento. Occorre soprattutto capire quali siano le competenze da ibridare. Nel volume abbiamo realizzato una mappa, la rosa dei venti, che ben esemplifica la situazione».
In cosa consiste questa ibridazione? «Da un lato, richiede di saper ibridare competenze creative con competenze di analisi dei dati. Quindi una prima tendenza di ibridazione è quella tra la capacità di costruire i contenuti e quella di dialogare con altre professionalità più tecniche. Il mercato è in cerca di persone in grado di gestire contenuti, analizzare i big data, maneggiare gli strumenti di monitoraggio dell’audience e gli strumenti di ottimizzazione dei siti».
E poi? Richiede di lavorare tra “verticalizzazione e orizzontalizzazione”, un tema oggi chiave. Occorrono competenze orizzontali, e in particolare la capacità di gestire processi complessi (oggi fare una campagna di comunicazione equivale a girare un film) combinate con competenze verticali, specialistiche (che possono essere informatiche, grafiche, ecc.).
Facciamo un esempio… Sarà richiesta sempre di più un’alfabetizzazione informatica di base, soprattutto nel mondo della comunicazione, che non significa dover diventare programmatori, ma sapere che cosa vuol dire programmare. Non tutti dovranno essere economisti, ma anche chi viene da facoltà umanistiche deve capire cosa è possibile fare o meno con un certo budget. Questo non significa divenire dei “tuttofare" ma sviluppare capacità di dialogo reciproco tra professionalità adiacenti. Ibridare tra queste grandi direzioni è ciò che il mercato di oggi sta chiedendo maggiormente».
Qual è l’aspetto più inatteso di questo processo? «Mi ha colpito soprattutto la velocità con cui questi fenomeni si stanno producendo, contaminando aree che prima erano separate: ormai qualunque impresa o agenzia (non soltanto le aziende editoriali) è una media company, cioè produce contenuti e li distribuisce; i cosiddetti branded content sono un settore con un’espansione velocissima. Comparti che tradizionalmente erano differenti oggi si stanno avvicinando, tanto che una serie di professioni è del tutto trasversale: il social media manager, figura che si inserisce in vari ambiti come l’agenzia, l’azienda, le media companies tradizionali o i quotidiani. Questi cortocircuiti sono all’ordine del giorno».
In Italia cosa succede? «Le trasformazioni nel mondo della comunicazione e delle sue professioni in generale, ma nel nostro Paese in modo particolare, avvengono con velocità differenti: abbiamo dei settori di resistenza di modalità professionali precedenti, oppure dei fenomeni di modalità di adattamento lievi. Nel giornalismo, per fare un esempio, restano le figure tradizionali ma non c’è più spazio per assorbirne di nuove. È in atto una riconversione delle redazioni ai nuovi settori del web, del digital e del social e, soprattutto, sempre di più giornali e testate televisive fanno ricorso a free lancer in grado di garantire quel prodotto veloce e innovativo di cui hanno bisogno».
Che prospettive si delineano? «Questa guida è pensata come report annuale, in costante aggiornamento, per la natura stessa dell’oggetto che vive un rapido mutamento. Le tendenze su cui si giocherà il futuro sono, tra le altre, uno sviluppo del mercato del cultural heritage. Non a caso, la valorizzazione e la costruzione di percorsi fruitivi per i beni culturali sarà oggetto di un approfondimento sul Libro Bianco 2018».
Altri temi in cantiere? «Uno è la differenziazione del mestiere del giornalista, su cui lavoreremo insieme a un équipe internazionale. Il terzo tema è l’evoluzione delle start-up: monitoriamo le dinamiche dell’ecosistema start-up poiché la loro trasformazione riguarda il futuro della struttura delle imprese. Le start-up in Italia, nate come micro-imprese al servizio di imprese più grandi, in questo momento sono sempre più fagocitate da queste; sempre più i “cacciatori di teste” prendono direttamente giovani professionisti dalle start-up o giovani che sono maturati al loro interno, saltando una serie di passaggi anche generazionali. Nel bene o nel male, il mercato del lavoro sta cambiando in questo modo e bisogna esserne consapevoli per capire come muoversi».