“Sapere è poco; sapere nella giusta connessione è molto; sapere nel punto giusto è tutto”. Questa citazione di Hugo von Hofmannsthal è posta in apertura all’introduzione del volume Giustizia e letteratura II (Vita e Pensiero), in libreria dal 9 aprile. Al professor Gabrio Forti (nella foto), docente di Diritto penale e di Criminologia, preside della facoltà di Giurisprudenza e direttore del Centro studi “Federico Stella” sulla Giustizia penale e la politica criminale, curatore del volume con Claudia Mazzucato e Arianna Visconti, abbiamo chiesto qual è la “giusta connessione” tra il diritto e la letteratura. «È la “grande domanda” cui stiamo cercando di rispondere da quando, nel 2009, in Università Cattolica, è partito il ciclo di seminari di “Giustizia e Letteratura” - afferma il professore -. Il lettore del primo volume e del secondo, potrà trovare molte risposte e magari, in base alla sua cultura, sensibilità e professione, preferirne alcune rispetto ad altre. Una risposta molto sintetica ed essenziale potrebbe essere che la “giusta connessione” tra diritto e letteratura stia nella lingua, nelle parole».
In che senso? Grazie alla ricchezza del linguaggio letterario, come dice Martha Nussbaum, si acquisisce la capacità di immaginare le vite di altre persone e di avvertire quelle vite come anche nostre: viene favorita l’identificazione e la partecipazione ai destini altrui, la percezione dei legami possibili tra sé e i protagonisti delle storie. Il testo narrativo offre quindi un salutare antidoto nei confronti di quegli espedienti autoprotettivi con i quali siamo portati a tenere a distanza le persone e a sentirci estranei alle loro vite.
Come si traduce tutto ciò sul piano della giustizia? Credo che la letteratura aiuti tutti e specialmente giudici, avvocati e professionisti del diritto, a “prestare attenzione” alle singolarità umane altrui. E questo ha molto a che vedere con il senso di giustizia, con la Giustizia, verso cui il diritto deve instancabilmente protendersi.
Quali sono le qualità di una buona prosa giuridica? La chiarezza e la proprietà di un linguaggio che usi solo le parole strettamente necessarie e si serva del gergo specialistico come extrema ratio, quando non sia possibile esprimere efficacemente in altro modo i concetti del diritto. Certamente non il colonizzare la letteratura con le categorie giuridiche o per servirsene come ornamenti eruditi della propria prosa. Questo vezzo lo annovero tra le “disumanità”, grandi e piccole, di cui a volte, non solo l’esercizio pratico del diritto, ma la stessa dottrina giuridica, si rendono responsabili.
Il libro Giustizia e letteratura II raccoglie i contributi di autori che presentano differenti profili professionali e disciplinari: non solo docenti universitari (letterati, psicologi, scienziati della comunicazione e giuristi), ma anche registi, scrittori, giornalisti, avvocati e magistrati. Chiediamo al professor Forti se c’è una storia corale che accomuna i diversi contributi.
«Una delle cose più interessanti sia della lunga fase preparatoria dei nostri seminari, sia di ciò che vi accade durante e dopo - ci spiega -, è vedere come la parola “Giustizia” che proponiamo agli ospiti “non giuristi” quale chiave di ri-lettura dei testi con cui sono familiari, fermenta nei loro pensieri e, quasi sempre, subisce una graduale mutazione, arricchendosi di significati più sottili e dismettendo quelli convenzionali. Spesso per scrittori e critici letterari la parola “giustizia” viene dapprima intesa riduttivamente evocando tribunali, cancellerie, processi, verbali. Ed è a queste realtà che associano, prima di arrivare da noi, anche la figura del giurista, considerato un “pratico”, con scarse frequentazioni culturali e filosofiche e fondamentalmente ristretto nel proprio ambito specialistico».
Cosa fa cambiare loro idea? È bellissimo assistere allo stupore e al repentino cambiamento di prospettiva di queste persone quando si trovano di fronte ai nostri giovani docenti e ricercatori di diritto penale, molto ben attrezzati di cultura umanistica e usi a porsi questioni fondamentali come quello della dignità umana, del rispetto dei diritti, della Giustizia con la G maiuscola, appunto. È da questo punto che nasce e cresce la “storia corale”. Quando per esempio i letterati riconoscono di aver appreso, niente meno che da dei giuristi, nuove prospettive sulle opere e i temi che da anni assorbono la loro vita.
Alla base del libro, facciamo notare, c’è l’impegno svolto dai giovani docenti e ricercatori del Centro Studi “Federico Stella” sulla Giustizia penale e la politica criminale, senza dimenticare il pubblico di studenti che ha assistito agli incontri del ciclo; nel libro tuttavia l’invito a riflettere sul tema della giustizia non è destinato solo agli addetti ai lavori. Chiediamo al professor Forti qual è il “pericolo” che corrono i giovani che, al contrario, non s’interessano del tema della giustizia.
«Una delle insidie più gravi che minacciano i nostri giovani e la qualità della loro futura vita personale e professionale, è la fretta, l’impazienza - risponde -. Un “male” che assume innumerevoli forme. Per esempio quella di attendersi dall’università quasi soltanto risposte pratiche, pronte all’uso per il lavoro di avvocato, magistrato, ecc. considerando una perdita di tempo la riflessione sui grandi interrogativi culturali, filosofici, teologici. Questo atteggiamento, una volta insediatosi nelle visioni del mondo e nelle abitudini, può avere effetti deleteri sui successivi stili professionali, generando una sollecitudine ansiosa di “chiudere il caso”, magari sposando troppo precocemente un certo schema (accusatorio o difensivo, a seconda dei ruoli professionali) e non vedendo veramente le particolarità dei fatti e delle persone che si hanno di fronte».
Con quali risultati? L’esito è, appunto, l’ingiustizia, che nasce, al pari dell’immoralità, come diceva la scrittrice Susan Sontag, soprattutto da un difetto di attenzione vera ai mondi umani che ci stanno attorno. Da questo “peccato capitale” dell’impazienza (come lo considerava Franz Kafka) trae origine molta della storia infinita degli errori giudiziari e dei dispendiosi sviamenti e allungamenti dei processi e delle detenzioni di cui tanto soffriamo nel nostro Paese.