Giunto alla sua nona edizione, il ciclo seminariale “Giustizia e letteratura” – che costituisce una delle più importanti iniziative coltivate dall’Alta Scuola Federico Stella sulla giustizia penale – ha, quest’anno, a oggetto il tema del Mito e delle narrazioni della giustizia nel mondo greco.
Il passaggio dalla giustizia violenta a un modello dialogico, regolato – che nella Grecia antica si coglie anzitutto nelle Eumenidi di Eschilo –, richiama la dinamica del processo penale, che è, «in fondo, un grande spettacolo teatrale». A sottolinearlo, citando a sua volta il volume di Martha Nussbaum Fatal fictions: crime and investigation in law and literature, è Gabrio Forti, ordinario di Diritto penale e Criminologia, preside di Giurisprudenza dell’Università Cattolica e direttore dell’Alta Scuola.
A ben vedere, la giustizia e le altre tre virtù cardinali compaiono – afferma Mario Cantilena, ordinario di Letteratura greca all’Università Cattolica – già nella poesia greca arcaica, ma vengono “canonizzate” da Platone nel IV secolo: esse sono virtù “collaborative” che prendono il posto delle virtù “competitive”, quali coraggio, forza, senso dell’onore; al centro dell’Iliade, nel duello tra Agamennone e Achille, è, infatti, in gioco una questione di onore e non di giustizia: l’idea di giustizia esiste, in questo contesto, solo in potenza ed è subordinata al riconoscimento dei diversi gradi di onore di ciascun personaggio.
Con riferimento alla letteratura greca del periodo arcaico, il termine “Dike” (che ricorre cinque volte nell’Iliade) indica, alternativamente, la sentenza di un giudice o le ragioni di una parte, e, in un caso, la giustizia divina. Lo stesso concetto compare sette volte anche nell’Odissea, e in un caso indica proprio la “giustizia” di Zeus. Su un altro piano, in Omero, “Dike” non è, però, personificata (lo è, invece, “Themis”, che indica la regola di costume o la decisione legalmente vincolante), contrariamente a quanto, invece, appare in Esiodo.
Il modello di giustizia proprio della Grecia arcaica non sembra, però, prescindere dai delicati equilibri che caratterizzano l’esistenza dell’uomo e il suo rapporto col divino. Esso muove – conclude Mario Cantilena – dal presupposto secondo cui la condizione umana è caratterizzata da fragile incertezza e impotenza, ed è soggiogata dall’ostilità divina, che è potenza dominatrice: la spietata giustizia degli dei è incomprensibile all’uomo e spesso imperscrutabile. In tale contesto, il deus ex machina non è, dunque, solo un espediente drammaturgico, ma anche teologico perché consente all’uomo di comprendere l’intenzione divina. Themis rappresenta il diritto celeste, Dike quello terreno, modellato sul primo. Nel rapporto uomo-uomo la giustizia è disciplinata, invece, dalla timè (cioè dal rispetto e dall’onore): la sofferenza umana è letta come “punizione divina di una colpa”.
«Nell’immaginario greco arcaico», si domanda, tuttavia, Alessandro Provera – assegnista di ricerca in Diritto penale all’Università Cattolica e curatore del ciclo seminariale Giustizia e letteratura – «esistono più concetti di giustizia rapportabili al nostro ideale contemporaneo»? L’analisi prende avvio dall’indagine sul rapporto tra mito, logos e giustizia: termini, come ha affermato lo stesso discussant, all’apparenza, concettualmente autonomi, ma, in realtà, profondamente relazionati tra loro. In altri termini, all’interno dei poemi omerici, c’è solo consequenzialità tra l’offesa alla timè e la necessaria restituzione dell’onore tolto, in senso marcatamente retributivo?
Per rispondere in senso affermativo al quesito, basterebbe guardare alla concatenazione delle offese reciproche tra Agamennone e Achille. Questa logica della perfetta retribuzione e proporzionalità lascia aperti alcuni spiragli che suggeriscono un ideale di giustizia diversa, ove sembra quasi profilarsi uno schema “assembleare”, una giustizia della “misura” che si ottiene attraverso il “logos”, il dialogo, il confronto dialettico.
La nascita stessa del concetto di “responsabilità” è legata alla comprensione del fatto che sia necessario reagire alla “hybris”, che è la tracotanza, la prima forma di ingiustizia come annientamento sproporzionato dell’altro da sé. Un’idea differente di giustizia compare altresì in Solone, nella misura in cui emerge una certa tensione verso la ricerca della giusta “misura”, la quale coincide con la capacità di indagare il mondo e fare memoria. In che modo si può reagire “con misura” alla “hybris”?
L’Odissea è intessuta di scene del riconoscimento (Odisseo, ad esempio, al suo ritorno, è riconosciuto dal cane Argo e da Penelope) che sono il «culmine della logica interna ed esterna del mito»: il mito, confrontando dialetticamente l’uomo con una dimensione altra da sé (esterna) cerca di giungere a più verità circa l’essenza stessa della natura umana. Il riconoscimento più emblematico si trova forse nell’Iliade, nella scena in cui Achille restituisce il cadavere di Ettore al padre Priamo. Riconoscendo nel volto sofferente di questi il proprio padre Peleo, Achille rinuncia all’ennesima perpetuazione della logica retributiva e fa intervenire un altro paradigma di giustizia. È, quindi, solo la comprensione del male, della sofferenza dell’altro che fa sì che essa possa essere alleviata.
E allora, l’insegnamento che se ne può trarre per il diritto penale è abbracciare un modello di giustizia che “si fa carico” della sofferenza umana, attraverso, per esempio, percorsi di restorative justice che consentano l’incontro tra il dolore della vittima e quello del reo.
Per altro verso, si può affermare, come ha, icasticamente, chiosato Gabrio Forti, che «la lettura della tragedia greca oggi ci consente di superare la logica contemporanea che minimizza, oblitera e nasconde il conflitto. Essa ci ricorda che una minima misura di conflitto è necessaria per fare avanzare la società e stimolare la creatività e il progresso».
Il ciclo seminariale proseguirà il 1° marzo 2018 con un incontro dal titolo Il conflitto fra giustizia e legge nel teatro greco a cui parteciperanno in veste di relatori Antonietta Porro, docente di Letteratura greca all’Università Cattolica, Mario Cantilena e Vincenzo Militello, docente di Diritto penale all’Università degli Studi di Palermo.