«Bisognerebbe rileggersi i capitoli che Manzoni dedica alla peste, dal 31 al 34, e anche quelli che dedica ai tumulti di San Martino, alla rivoluzione del pane, che vanno dall’undicesimo al quattordicesimo. Sono letture nutrienti che fanno capire quali sono i comportamenti, le reazioni, le debolezze, le ottusità, le cecità delle persone, che sono simili a quelli di oggi, nonostante i secoli di storia». Il parallelismo tra i fatti raccontati nei “Promessi sposi” e quanto accade nel nostro Paese da quando si è diffuso il Coronavirus è più che evidente e per il professor Giuseppe Langella, docente di Letteratura italiana moderna e contemporanea alla facoltà di Lettere e filosofia, direttore del Centro studi “Letteratura e cultura dell’Italia unita” e tra i maggiori esperti in Italia del capolavoro manzoniano, vale la pena di rileggere quelle pagine d’autore.
Un’analogia che è presente già nell’appendice al romanzo, la “Storia della colonna infame”, dove Manzoni «studia un caso giudiziario, la condanna di due innocenti scambiati per untori a partire da testimonianze sommarie, inventate, inverosimili e cui si è voluto prestar fede senza fare tutte le indagini che sarebbero state richieste perché si è era creata la psicosi dell’untore. C’è tutto uno studio che sta tra il diritto e il libero arbitrio, cioè sulla responsabilità morale che risiede nel giudizio dell’operato degli altri da parte dei giudici e della autorità coinvolte. E poi c’è l’indagine profondissima dell’animo umano».
Ma è nei “Promessi sposi” che il parallelismo si fa più stringente… «Manzoni ci dà un grande affresco della Milano colpita dalla peste. E, avvalendosi di fonti storiografiche che ha studiato con la meticolosità che conosciamo, ha proposto una serie di casi in cui fa vedere tutto quello che ci stiamo ritrovando oggi a vivere e a osservare».
Possiamo analizzarne alcuni? «Da una parte la psicosi del contagio. Nel capitolo 34esimo c’è l’episodio di Renzo che arriva a Milano, in una città deserta (come lo sono un po’ anche le nostre oggi), vede da lontano un signore, gli si avvicina e fa per togliersi il cappello in segno di rispetto, ma viene scambiato per un untore perché quel tale era convinto che lui nel berretto tenesse la polverina del veneficio. E poi, quando arriva finalmente al palazzo di don Ferrante e donna Prassede, dove sapeva che Lucia era protetta dalle grinfie di don Rodrigo, bussa talmente a lungo al martello della porta che basta questo gesto per farlo scambiare di nuovo con un untore. Inoltre le autorità sanitarie, che erano le uniche abilitate a dare una valutazione scientifica con tutti i limiti dell’epoca, non vengono ascoltate: i loro allarmi vengono disattesi dall’autorità politica».
Cos’ha da insegnarci il capolavoro manzoniano? «Quello dei “Promessi sposi” è un caso speciale in cui la letteratura si nutre di storia, di fatti realmente accaduti, perché Manzoni si documenta e tanti personaggi e situazioni sono tratti direttamente dalle fonti storiografiche. Quindi la letteratura è storia ma è anche profezia: quando il prodotto è di autori di quel calibro, la letteratura coglie in radice una serie di dinamiche e di comportamenti che poi si verificano puntualmente».
C’è una grande modernità in tutto questo… «È la capacità di entrare nella psicologia e poi nell’azione dei singoli e dei gruppi. In questo Manzoni è un autore di straordinaria levatura: ha studiato molto bene sia quello che lui definisce, nei “Promessi sposi”, il “guazzabuglio del cuore umano” sia il comportamento irrazionale della folla in circostanze non normali. Per questo può sembrare sorprendente che un romanzo scritto due secoli fa rappresenti bene quello che sta succedendo ai nostri giorni, ma è così».
Possiamo parlare di corsi e ricorsi di vichiana memoria? «Alla fine le reazioni a certe circostanze sono sempre le stesse, i comportamenti umani si somigliano. Sia al basso, per quello che riguarda il comportamento della gente, sia per quello che concerne quello delle autorità, che è un altro punto costante dei “Promessi sposi”».