di Damiano Palano *
Le vicende legate all’indipendenza catalana contribuiscono a complicare il rompicapo spagnolo uscito dalla elezioni politiche dello scorso 20 dicembre. A lungo il nazionalismo catalano ha avuto due anime distinte: da una parte la coalizione moderata Convergéncia i Unió (Ciu), per decenni la formazione più votata e alla guida della Comunità autonoma; dall’altra un partito di ispirazione socialista, Esquerra Republicana de Catalunya (Erc).
Negli ultimi anni il quadro si è sensibilmente modificato, contestualmente all’avanzata di un’opzione nettamente indipendentista (e non più solo autonomista) e all’inizio di un lungo braccio di ferro tra Barcellona e Madrid, culminato per ora nelle elezioni autonomiche dello scorso 27 settembre.
In vista della scadenza elettorale, vissuta da molti come un plebiscito sull’indipendenza, le geometrie consolidate si sono ridefinite in relazione alla contrapposizione con Madrid. Convergéncia i Unió è tornata a dividersi in due componenti: da una parte l’Unió Democratica de Catalunya (Udc), contraria a ogni ipotesi secessionista; dall’altra Convergència Democràtica de Catalunya (Cdc), guidata dal presidente uscente Artur Mas e a capo di una coalizione indipendentista, Junts pel Sí (JxSí), la quale comprende, oltre ad altre piccole formazioni, la stessa sinistra repubblicana.
Come le successive elezioni generali di dicembre, anche le consultazioni catalane hanno segnato un cambiamento non da poco. Sia perché hanno complessivamente assegnato alle formazioni indipendentiste la maggioranza assoluta dei seggi, sia perché hanno premiato una forza radicale come Candidatura d’Unitat Popular (Cup): una piccola coalizione formata da collettivi di estrema sinistra, che con i propri dieci seggi è diventata decisiva per sostenere una maggioranza indipendentista.
Oggi la Cup e il suo leader Antonio Baños sono sotto i riflettori, per il rifiuto di sostenere un governo guidato da Mas e il conseguente rischio di nuove elezioni. Naturalmente si può imputare lo stallo politico che vive oggi la Catalogna all’estremismo della Cup, una formazione (ben più radicale di Podemos) in cui confluiscono molte componenti e che comprende al suo interno anche un’anima “pancatalanista”.
Non vanno però sottovalutati altri aspetti, che ancora una volta contribuiscono a mettere in luce, al tempo stesso, la forza e la fragilità della retorica populista. Se il mosaico catalano ha certo le proprie specificità, ci sono infatti alcuni elementi che lo accomunano a ciò che avviene in molte democrazie europee. L’intreccio tra la crisi economica, lo stallo politico dell’Ue e l’instabilità internazionale tende infatti a indebolire i partiti tradizionali e a favorire le formazioni radicali e “antisistemiche”.
Spesso queste forze non sono facilmente inquadrabili con le categorie di “destra” e “sinistra”, perché la loro risorsa principale, ben più che la componente progettuale, è la retorica populista della polemica contro la «casta». Una retorica di cui Podemos e Ciudadanos hanno sperimentato tutte le potenzialità nell’ultimo anno, ma che non è affatto assente anche nella rivendicazione dell’indipendenza catalana. Certo le radici storiche dell’indipendentismo catalano sono profonde e non possono essere trascurate.
Negli ultimi anni la richiesta del referendum sull’autodeterminazione ha però offerto alla classe politica di Barcellona (e allo stesso Mas) anche un’arma formidabile per proiettare verso lo Stato centrale la sfiducia nei confronti dei partiti tradizionali e l’insoddisfazione per le conseguenze della crisi. Per questo si tratta di una risorsa che continuerà ad avere un peso notevole. Ma che non potrà agevolmente occultare l’eterogeneità di un fronte diviso su molte questioni cruciali.
* docente di Scienza della politica, facoltà di Scienze politiche e sociali, Università Cattolica (Milano e Brescia)