di Gian Luca Potestà*
Pareva che gli avvenimenti più recenti avessero delineato un quadro decifrabile di percorsi e obiettivi dei terroristi – giovani borderline o già oltre la linea, immigrati di seconda generazione disadattati o respinti dagli scintillanti mondi europei, determinati a colpire negli spazi del divertimento e dello stare insieme, in una discoteca, davanti ai fuochi, in un concerto. Senza distinzione di etnia e religione: rabbia, avversione, odio, alimentati da fonti lontane e inafferrabili in soggetti fragili e disturbati. L’islamizzazione del radicalismo è avvenuta nelle forme semplificate e sommarie delle conversioni spicciative via web – nella solitudine delle camerette degli immigrati di seconda generazione e nell’oscurità degli ospizi per Asylbewerber – che rendono di botto obsolete e di retroguardia le polemiche sulle moschee e le madrasse come luoghi di indottrinamento.
L’episodio di ieri rivela un’altra dimensione del terrore, una dimensione propriamente religiosa, come tale sostanzialmente inaudita sul suolo europeo da decenni. Se “l’assassinio nella cattedrale” segnò l’apice di un grandioso conflitto fra i due poteri supremi della Cristianità, l’omicidio di un vecchio prete dinanzi a tre suore e due fedeli nella chiesa di un paese sconosciuto della Normandia pare la metafora di ciò che è divenuto il potere del cristianesimo in Europa. E tuttavia vicende come questa mostrano paradossalmente che il cristianesimo è vivo. Come a Tibirine, l’agnello ucciso fin dalle origini occupa la scena del mondo.
Come ben sappiamo dalla storia di due decenni di terrorismo in Italia, la lotta contro il terrore si gioca su piani diversi. Nell’immediato, contano innanzi tutto la capacità di disarticolazione delle reti: prevenzione, informazione e disinformazione, reattività e prontezza (forse in Francia non tutto ha finora funzionato in questo senso). Ma occorre anche un’azione di contrasto più a lungo termine, che miri a conoscere e comprendere, per sradicarle, cultura e parole d’ordine dei militanti che mentre uccidono si vogliono martiri.
Una traccia da seguire è quella della loro cifra apocalittica. Dalla fine degli anni ’70, retoriche e modelli apocalittici di derivazione ebraica e cristiana, importati dagli Stati Uniti e opportunamente trasformati, hanno cominciato ad attecchire nei territori islamici, a partire dall’Egitto. Negli ultimi anni il regno degli apocalittici si è esteso alla Siria, dove un piccolo villaggio ai confini con la Turchia viene ora profetizzato come luogo cardine dei conflitti finali, in attesa che questo si sposti nelle città sante di Gerusalemme e di Roma. Apocalittica è la letteratura che si compra a basso prezzo nei mercati del Cairo, che alimenta la stampa dei fotoromanzi e dei fumetti, che nutre con la sua rappresentazione semplificata della realtà le forme della propaganda mediatica dei fondamentalisti.
L’apocalittico concepisce il momento in cui vive come tempo del conflitto decisivo tra le forze della luce e le forze delle tenebre, cui è personalmente chiamato a dare il proprio tributo sul crocevia degli scontri tra i fedeli di Dio e i bestemmiatori del suo nome. Per definizione, l’apocalittico non può essere tiepido, occorre disponibilità al martirio (dato e subìto) e accettazione di esso in vista del regno terreno dei santi e della ricompensa celeste. Al di là delle proclamate finalità politico-militari dell’Isis – restituire nei paesi che combattono lo “stato islamico” lo stesso dolore che i loro aerei provocano bombardando in Siria o in Libia – sono le retoriche messianiche a motivare e sorreggere i singoli e i piccoli gruppi perché si facciano protagonisti dello scenario apocalittico di un giorno.
Dopo aver ucciso l’officiante, i due giovani criminali hanno preteso di sostituirsi a lui, filmandosi mentre pronunciavano proclami dall’altare, prima di essere a loro volta uccisi sul sagrato. Viene la tentazione di pensare al celebre affresco di Luca Signorelli nella cattedrale di Orvieto, in cui l’Anticristo ha assunto le fattezze di un mellifluo predicatore che parla indisturbato a una piccola folla da un piedistallo sul sagrato di una chiesa, mentre alle sue spalle giacciono senza vita i sacerdoti martirizzati. Ritraiamoci da questa tentazione. Ebraismo, Cristianesimo, Islam sono intrisi di apocalittica. Apocalittica chiama apocalittica, sangue chiama sangue.
Un tratto comune alla storia del cattolicesimo europeo degli ultimi decenni è stato lo sforzo di depotenziare le retoriche apocalittiche, di togliere alla violenza ogni copertura sacrale. Prima ancora di papa Francesco, Benedetto XVI si è espresso nitidamente in questo senso. Evangelo significa non violenza. Occorre non perdere di vista questa consapevolezza, neppure ora; e confidare che anche nell’Islam si profilino autorità religiose e civili capaci di circoscrivere e debellare le forze che esaltano lo scontro e di esaltare altri percorsi di fede e di vita religiosa, che già si danno, aperti alla convivenza e alla pace.
* Direttore del Dipartimento di Scienze religiose dell’Università Cattolica del Sacro Cuore