di Paolo Balduzzi *
Alla fine di maggio 2019 si terranno le votazioni per l’elezione del Parlamento europeo. Per la maggior parte di coloro che sono nati all’alba del nuovo millennio, vale a dire tra il 2000 e il 2001, sarà il primo voto della propria vita. Si tratta di una generazione dalle incredibili potenzialità, che ha a disposizione strumenti di comunicazione e possibilità di movimento impensabili fino a pochi anni fa. Eppure, le prospettive di crescita, di realizzazione e di miglioramento delle proprie condizioni di vita appaiono, secondo tantissimi indicatori socio-economici, estremamente difficoltose. E ciò diventa ancora più paradossale quando si nota che, all’interno dell’Unione europea, la condizione giovanile negli altri Paesi non appare così drammatica.
Da cosa dipende tutto ciò? Una possibile spiegazione deriva dalle regole elettorali utilizzate per l’elezione del Parlamento europeo e dei Parlamenti nazionali. Concentrandosi qui sulle prime, al di là di pochi elementi comuni a tutti, ognuno dei 27 paesi dell’Unione ha una certa libertà di scelta sulla propria legge elettorale. Nemmeno a farlo apposta, la differenza più significativa riguarda proprio le età di accesso al diritto di elettorato attivo e passivo.
Con l’eccezione di Austria e Malta, dove possono votare anche i sedicenni, in tutti gli altri 25 Paesi che parteciperanno all’elezione del Parlamento europeo si può votare (elettorato attivo) a partire dai 18 anni. Inoltre, in alcuni Paesi si può essere eletti (elettorato passivo) già a 18 anni, in molti altri a 21 o a 23, e solo in due, Italia e Grecia, a partire dai 25.
È davvero paradossale come, all’interno di una Unione che regolamenta innumerevoli aspetti della nostra vita, si permettano differenze così marcate tra i suoi cittadini quando si tratta di votare. Con un ulteriore elemento di discriminazione: secondo le norme europee, un cittadino italiano residente in un altro paese può decidere di candidarsi secondo le regole di quel paese. In altri termini, a seconda del luogo di residenza, due giovani italiani hanno diritti politici ed elettorali diversi.
Riforme in questo senso non solo sono possibili ma sono anzi in atto negli altri Paesi ormai da tempo. Per esempio, rispetto alle elezioni del 2009, Cipro e la Francia hanno fatto scendere l’età di elettorato passivo di ben 4 e 5 anni, a 21 e 18 anni rispettivamente; l’Italia, invece, resta il paese dove i giovani hanno barriere più alte all’ingresso nelle istituzioni. E ciò diventa più grave se si pensa che la stessa barriera persiste per l’accesso al Parlamento nazionale: con l’aggravante che, in un contesto di bicameralismo perfetto, il procedimento legislativo in Italia è di fatto condizionato dal Senato (elettorato attivo a 25 anni e passivo a 40).
Tuttavia, se per agire sui limiti di età per le istituzioni nazionali serve una modifica costituzionale, per cambiare il limite di elettorato passivo per le elezioni europee basta una semplice modifica a una legge ordinaria, nello specifico l’art. 4 della legge 18/1979. Nel nostro paese, a 18 anni si può essere eletti sindaco di una città come Roma, Napoli o Milano; si può diventare Consigliere regionale, e quindi legiferare sul territorio di competenza; ci si può sposare e guidare un’automobile; ma non si può diventare eurodeputati e quindi contribuire alle regole di convivenza della comune casa europea.
È una condizione che, da un lato, allontana dai giovani stessi l’interesse per l’Europa, per la sua storia e per le sue prospettive; dall’altro, influenza irrimediabilmente le politiche adottate nell’Unione e in Paesi come l’Italia a sfavore dei giovani stessi. Tutto ciò è poi peggiorato da due aspetti. Il primo è squisitamente politico: la democrazia parlamentare ha evidentemente finora fallito nel rappresentare adeguatamente gli interessi delle generazioni più giovani e di quelle future. Se la classe politica è lungimirante, l’assenza di alcune generazioni tra quelle che hanno il potere di decidere diventa meno grave. Ma non è così in Italia.
Il secondo è invece di tipo demografico: l’Italia è il paese dell’Unione europea dove è più bassa la quota di under 40 sul totale della popolazione (nel 2017, il 40 per cento contro, per esempio, il 54 per cento dell’Irlanda, che è il paese più giovane, secondo i dati Eurostat). Cosicché, unendo le barriere all’ingresso alle istituzioni con l’inconsistenza numeraria dei giovani stessi, è possibile concludere che l’Italia è di gran lunga il paese dell’Unione dove i giovani hanno meno potere politico potenziale.
L’impietoso confronto è illustrato nel grafico (vedi qui sopra). Per contrastare il declino della condizione giovanile, che ha ripercussioni sia dal punto di vista della crescita economica del paese che da quello dell’equità tra le generazioni, sarebbero innanzitutto necessarie politiche per la famiglia e la valorizzazione del merito. Tuttavia, anche una modifica alle regole elettorali per l’elezione del Parlamento europeo potrebbe avere una valenza più che simbolica. Certo, non ci si aspetta che cambi nulla nel breve periodo: ma il breve periodo è una preoccupazione della politica dalla visione limitata e dal fiato corto, della politica che è solo ricerca del consenso elettorale e non di strategia di crescita. Diminuire l’età di elettorato passivo significa rendere più consapevoli i giovani degli strumenti che hanno a disposizione e delle loro potenzialità, nonché sensibilizzare adulti e anziani rispetto alle aspettative delle generazioni future. C’è tutto il tempo perché questo sia possibile già dalle prossime elezioni europee: il nostro Paese è pronto a questo passo?
* docente di Economia pubblica e Scienza delle finanze - dipartimento di Economia e Finanza