Non erano di certo ambientalisti, ma non per questo gli antichi romani peccavano di scarsa attenzione per l’ambiente. E, senza aver dato vita a un “diritto ambientale”, avevano già posto le basi per riordinare le categorie giuridiche ancor oggi poco sistematizzate in materia. È quanto sostiene la tesi di laurea “Il diritto dell'ambiente nella sua evoluzione storica” di Eva Di Palma, condotta sotto la supervisione della professoressa Lauretta Maganzani, vincitrice di un importante riconoscimento (di cui riferiamo qui accanto).
Secondo lo studio, nel mondo antico non mancavano problemi di impatto ambientale: si andava dal disboscamento, che provocava gravi dissesti ideologici, collegati alle frequenti esondazioni del Tevere e alla crisi energetica da carenza di legname, alle questioni legate alla salubritas delle acque, fluviali e fognarie, messe a repentaglio dall’attività dei fullones, i laboratori artigianali che usavano grandi quantità di acqua e spesso la reimmettevano inquinata. Senza parlare delle emissioni nell’aria derivanti dalla cremazione delle salme nelle ustrina, dall’attività delle fornaces plumbi, dalle tabernae casiariae. Fino ai problemi connessi all’urbanizzazione e alla sofisticazione e adulterazione dei prodotti naturali a scopo di lucro.
Come affrontava l’antica Roma queste sfide? «Lo strumento principale – spiega Eva Di Palma – era la “procedura interdittale”, che constava di interventi di natura meramente privata. Si trattava, infatti, di ordini di carattere amministrativo emessi nei confronti di chi avesse posto in essere comportamenti lesivi di determinate situazioni giuridiche. Erano sostanzialmente provvedimenti d’urgenza emanati dal pretore».
Accanto agli interdicta, un altro strumento utilizzato per la tutela in senso lato ambientale era l’azione popolare. «Il suo esercizio spettava a qualunque cittadino, che era titolare delle res publicae in quanto membro del populus – prosegue la neodottoressa -. In tutti i casi analizzati di actiones populares in materia, si trattava di mezzi posti a tutela di interessi percepiti come collettivi, che coinvolgevano, pertanto, l’intera comunità dei cittadini». Le finalità erano diverse: proteggere la proprietà privata e l’utilitas singolorum, ma anche la sacralità dei luoghi o il loro usus publicus e, quindi, la loro utilitas publica, «interessi, dunque, solo in parte correlati a una – tenue – preoccupazione della salvaguardia di determinate porzioni ambientali o della salubritas privata o cittadina».
Per questo, secondo il lavoro di Eva Di Palma, non è corretto parlare di un “diritto ambientale romano”: «Era del tutto assente nel diritto romano una concezione ambientalista». Ciò non significa, però, come abbiamo visto, che i Romani fossero disattenti ai problemi che oggi definiremmo “ambientali”. «Pur essendo noti già all’epoca, quantomeno alle élites culturali, la tossicità e l’impatto sul territorio di determinate attività umane, affermare l’esistenza di un’ecologia ante-litteram o di un diritto ambientale seppur in forma embrionale costituirebbe un grave errore metodologico - afferma -, perché il concetto di “ecosistema”, rappresentazione che implica la conoscenza dell’esatta interconnessione tra elementi eterogenei, geografici, climatici, pluviometrici, antropici ed economici, era del tutto priva di significato per i Romani, tanto per l’opinione pubblica colta, quanto per il pretore».
Neppure oggi, d’altra parte, la definizione del concetto giuridico di “ambiente” è ancora un patrimonio pacifico e indiscutibile, afferma la tesi analizzando l’evoluzione storica della materia. «Con esso si è, infatti, soliti identificare un concetto tendenzialmente macroscopico e di difficile determinazione. La ricerca permette di addentrarsi nel vivace dibattito, non ancora del tutto sopito, tra chi sostiene che l’«ambiente» sia un bene giuridico unitario e chi, invece, gli attribuisce una valenza meramente descrittiva». Nonostante i recenti e fondamentali risultati raggiunti dalla Corte costituzionale nella lenta evoluzione della materia, l’ordinamento giuridico italiano fatica nella costruzione sistematica del diritto ambientale. E qui il ragionamento si salda con le radici lontane del nostro diritto.
«L’attrazione della materia ambientale nell’alveo pubblicistico – fa notare Eva Di Palma -dimostra che la figura che meglio si confà alla tutela e alla fruizione del bene giuridico “ambiente” è quella della proprietà collettiva, che pone in primo piano l’appartenenza comune del bene, la sua utilizzazione da parte di tutti e la sua conservazione per le future generazioni. Più che di “proprietà”, sarebbe opportuno parlare di “appartenenza collettiva”, concetto ben presente ai Romani, i quali, nonostante fossero ben lontani da una concezione ambientalista propriamente detta, per assurdo avevano ben chiaro che determinati beni, come, ad esempio, il territorio, appartenessero al populus, alla comunità. La dimensione del “collettivo” pare sia, inoltre, conosciuta dalla nostra Costituzione. Quindi, per una costruzione sistematica del diritto ambientale sarebbe, forse, sufficiente comprendere, grazie all’indispensabile ricorso alle categorie giuridiche romane, che la gestione e la tutela dell’ambiente, pur trattandosi di un bene all’epoca sconosciuto, non sono nelle mani dell’autorità, ma in quelle del popolo, constatazione che implica la partecipazione di tutti i cittadini».