«Ci manca un po’ di pepe, adesso ce lo metto io». «Se Lei ci mette il pepe, ci mette anche la firma». A parlare sono rispettivamente padre Agostino Gemelli e Sofia Vanni Rovighi (nella foto qui a lato). È uno scambio di battute che l’indimenticata filosofa dell’ateneo rievocò a Roma il 28 giugno 1984 nell’Auditorium della facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Cattolica, ricordando il fondatore dell’Ateneo.
Il dattiloscritto completo, finora inedito, viene ora pubblicato nel 25° anniversario della morte dell’insigne studiosa all’interno della raccolta di scritti di Mario Sina, Studi su John Locke. E su altri pensatori cristiani agli albori del secolo dei lumi (Vita e Pensiero), in libreria dal 24 giugno.
È un omaggio che il professor Sina, allievo di Sofia Vanni Rovighi negli anni che seguirono la chiusura del Concilio Vaticano II e poi direttore del dipartimento di Filosofia della Cattolica, ha voluto inserire in appendice ai suoi scritti, riportando così alla luce questo ritratto insolito di Gemelli, il suo modo di essere rettore («L’Università Cattolica del Sacro Cuore rappresentava un posto grandissimo nella sua vita e nella sua attività») senza risparmiare accenni ai difetti.
«Certi gesti - scriveva la Vanni Rovighi - che gli furono rimproverati come acquiescenza al potere politico fascista (e furono ben pochi in confronto a quelli di molti altri) furono dettati dalla preoccupazione di difendere la sua Università dalla minaccia di chiusura da parte del potere politico, minaccia tutt’altro che immaginaria. E forse fu il timore di fronte alle obiezioni di un’altra autorità, quella ecclesiastica, che gli premeva ben più di quella politica, a indurlo ad allontanare dall’Università un uomo di grande ingegno e di purezza adamantina: Giuseppe Zamboni, un gesto che non può non essergli rimproverato e che lasciò anche a noi allora studenti dell’amaro in bocca. Non faccio un panegirico, accenno solo a dei ricordi, persuasa che le forti personalità, come la sua, hanno insieme a grandi qualità anche grossi difetti».
Ma è soprattutto il rapporto che il rettore intratteneva con i docenti che l’autrice mette in luce: «Ognuno di noi si sentiva seguito da lui nel proprio lavoro, lo sentiva partecipe di ogni sconfitta e di ogni vittoria. Non a caso, del resto, nell’Università era chiamato per lo più “il Padre”». E sulla scia dei ricordi la medievista racconta di quando, la mattina dopo l’esame di libera docenza a Roma, pur ripromettendosi di fare una buona dormita, senza mettere la sveglia, «alle sette […] mi sentii chiamare al telefono: era il Rettore e voleva che andassi subito da lui, all’ufficio che l’Università Cattolica aveva a Roma, a raccontargli come si era svolto l’esame […] gli brillavano gli occhi dalla gioia. E credo che episodi simili siano capitati a tutti quelli che affrontavano una prova qualsiasi. Voleva che i laureati e i docenti dell’Università Cattolica si presentassero preparati alle prove e li esortava, ci esortava, ci pungolava a studiare, a sgobbare, come egli diceva, ed era visibilmente compiaciuto quando, piombando in qualche Istituto con la celerità che gli era propria prima dell’incidente automobilistico che limitò penosamente i suoi movimenti, vi trovava studenti o docenti a studiare ad ore insolite, o tardi la sera o nelle ore del mezzogiorno».
Il “Padre” era anche un attento lettore degli scritti di giovani allievi e studiosi, con opinioni forti ma rispettose del pensiero altrui secondo la testimonianza di Sofia Vanni Rovighi: «Questo interessamento per il lavoro dei suoi giovani […] unito a quella prepotenza che è sempre una tentazione per una forte personalità realizzatrice, potrebbe far pensare che egli imponesse a chi lavora nell’Università i suoi modi di vedere; e invece l’esperienza mi dice che non era così: il Rettore aveva un grande rispetto della libertà altrui».
Un episodio in particolare lo racconta, nato da una recensione di un libro fazioso e di scarso valore scientifico per la Rivista di Filosofia Neo-Scolastica: «Portai la recensione al Rettore; la lesse, approvò ma aggiunse: “Ci manca un po’ di pepe, adesso ce lo metto io”. Sono sempre stata aliena dalla polemica. Gli dissi: “Se Lei ci mette il pepe, ci mette anche la firma”. “Va bene” disse, senza fare obiezione, egli, rettore, di fronte a una ragazzetta alle prime armi. Poteva ben dire, quando andai a ringraziarlo dopo la chiamata alla cattedra di Storia della filosofia medievale, ed egli ricordò i molti anni dai quali ci conoscevamo: “E in tutti questi anni sempre libertà, non è vero?” “Sì, Padre, e di questo Le sono grata ancora più che della cattedra”».