«Sono contento di essere qui a premiare questi atleti che riescono a conciliare l’attività sportiva con lo studio universitario e sono orgoglioso di essere in questo contesto splendido. È un piacere vedere lo spirito di appartenenza di questi ragazzi». È iniziata con queste parole la cerimonia di premiazione per gli atleti della Cattolica e, se si considera chi le pronuncia, sono frasi che suonano come quasi come un’investitura. Ospite d’onore dell’edizione di quest’anno infatti è stato Roberto Donadoni, indimenticato giocatore del Milan e della Nazionale italiana che una volta appese le scarpette al chiodo ha intrapreso con successo la carriera di allenatore che l’ha portato a guidare anche gli Azzurri dal 2006 al 2008. Attualmente è il tecnico dal Parma.
«Anche mio figlio studia – ha proseguito Donadoni - ed essere qui, dall’altra parte del banco, dopo essermi trovato tante volte dalla vostra parte dà tanti stimoli, capisci che il tuo ruolo può avere anche un aspetto formativo. Nel nostro ambiente questo spesso è troppe volte sottovalutato. Ed è un peccato. L’allenatore è un educatore. Anche in Serie A. Se un tecnico non è in grado di gestire un gruppo di venti ragazzi, se non riesce a far divertire i giocatori…bè…è meglio che cambi mestiere. A far correre un atleta siam buoni quasi tutti, l’allenatore fa la differenza nella gestione dei rapporti umani e dello spogliatoio».
Il mister del Parma non si è poi sottratto alle domande degli studenti presenti in Aula Pio XI che hanno chiesto l’opinione di Donadoni su numerose questioni tecniche come, ad esempio, l’importanza della figura del preparatore atletico: «È fondamentale. Per me è importantissimo riuscire costruire uno staff di alto livello. Io sono estremamente soddisfatto del mio. Il merito delle vittorie deve essere sempre distribuito con i propri collaboratori.
«È importante – ha aggiunto entrando nel dettaglio della gestione atletica dei calciatori- che ogni giocatore abbia una scheda singola personalizzata. Tuttavia non bisogna essere gelosi del proprio lavoro. Il materiale che raccogliamo noi lo mettiamo a disposizione della società e potrà essere liberamente consultabile anche da chi, eventualmente, verrà dopo di noi anche se purtroppo non tutti gli allenatori si comportano così».
Ma quanto incide essere stato un calciatore di livello mondiale in una carriera da allenatore? Per Donadoni «avere un passato da giocatore sicuramente porta in dote al neotecnico alcuni pro decisamente importanti; ad esempio si conoscono molto bene le dinamiche di gruppo all’interno dello spogliatoio, cosa passa per la testa dei tuoi giocatori in determinati momenti. Una volta vestiti i panni dell’allenatore poi si sviluppa ovviamente un’attenzione più approfondita alla squadra nel suo complesso. Il giocatore, e anch’io ero così, ha una visione più autonoma, legata più al suo contributo individuale che non alla prestazione collettiva della squadra. La mia carriera da giocatore – ha spiegato Donadoni - mi ha sicuramente aiutato, soprattutto all’inizio quando ho ricevuto un rispetto forse eccessivo nei confronti di quello che comunque era un allenatore esordiente. In ogni caso io sono una persona che tendenzialmente non pensa mai al passato. Vivo il quotidiano. E quando mi trovi davanti ai miei ragazzi, soprattutto se si tratta di giovani, penso sempre che ho il dovere di trasmettere quello che ho imparato da giocatore da tecnici del calibro di Liedholm, Sacchi, Capello, Parreira».
L'allenatore deve essere un professionista pronto ad affrontare tutte le situazioni. Un conto è essere alla guida della squadra fin dall’inizio della stagione avendo così modo di progettare la preparazione e di conoscere i giocatori e ben altra cosa è arrivare a torneo in corso per sostituire un tecnico esonerato: «Subentrare è sempre una cosa complicata, devi entrare in punta di piedi, nel rispetto del lavoro dello staff che ci ha preceduto. Quando sono arrivato a Parma ho trovato una squadra in ottima condizione dal punto di vista fisico ma ho provato a cambiare l’assetto tattico perché ero convinto che la difesa a tre si adattasse meglio alla squadra che avevo a disposizione. Devo ammettere che, mio malgrado, mi è sempre capitato di cambiare. A Lecco – ha raccontato Donadoni - giocavo con il 4-3-3 e l’ho riproposto a Livorno l’anno successivo ma mi sono accorto che non andava bene con i giocatori che avevo a disposizione. E così per la prima volta ho giocato con la difesa a tre, per me è stata una novità assoluta dato che neanche da giocatore avevo avuto esperienza con questo modulo. Però è andata bene e abbiamo fatto un ottimo campionato».
Ma Donadoni nella sua carriera ha avuto il l’onore (e l’onere) di sedere su una della panchine più “scottanti” in assoluto, quella degli Azzurri freschi di titolo mondiale: «In Nazionale si è più un selezionatore che un allenatore. La cosa più importante è cercare il contatto diretto con gli atleti e in ogni caso la fatica è più fuori che sul campo. La pressione è fortissima. La difficoltà infatti sta nel gestire tutto quello che si muove intorno alla Nazionale, ognuno ha la sua soluzione, è una sorta di tutti contro tutti, del resto non siamo forse il Paese dei due milioni di ct? Il campo – ha spiegato Donadoni - rappresenta il 30% del lavoro e, lavorando con molti professionisti che hanno grande esperienza internazionale, non è nemmeno la parte più difficile anche se resta comunque l’aspetto più gratificante. In ogni caso per me la Nazionale rimane un’esperienza assolutamente positiva: ho lasciato l’Italia al secondo posto del ranking e agli Europei siamo usciti ai quarti di finale contro la Spagna, una delle squadre più forti in assoluto, solo dopo i calci di rigore».
La conclusione è un’ammissione sincera che allo stesso tempo è un grande attestato di stima verso gli atleti della Cattolica: «La parola ‘accontentarsi’ , in tutti i campi della vita, non solo nello sport, mi dà estremamente fastidio. Per questo Quando vedo calciatori laureati provo invidia e rabbia. E mi chiedo…perché io non ce l’ho fatta?» .