«Ma tu, verme della terra, tu vuoi far giustizia! Tu lo sai, tu, quale sia la giustizia!». Così fra Cristoforo si rivolge a Renzo nel XXXV capitolo dei Promessi Sposi, quasi all’epilogo finale di un romanzo che è il classico per eccellenza della nostra letteratura e che è stato scelto, non a caso, come punto di partenza della terza edizione del ciclo seminariale Giustizia e letteratura organizzato dal Centro studi “Federico Stella” sulla Giustizia penale e la politica criminale, inaugurato il 10 novembre in un'aula gremita di studenti e avvocati. Il capolavoro di Manzoni si presta infatti a una rilettura profonda del tema “giustizia”, una parola che Pierantonio Frare, docente di Letteratura italiana moderna, ha fatto notare ricorrente con più significati e in diversi momenti precipui del racconto. A far da contrappunto il commento di Luciano Eusebi, docente di Diritto Penale.
Punto centrale dell’analisi di Frare è il valore polisemico del termine “giustizia” che attraverso diversi personaggi assume ogni volta nuove sfaccettature. Esemplare è il colloquio tra Azzaecagarbugli e Renzo, scambiato per un bravo, dove il fraintendimento fra i due nasce proprio dall’attribuire al termine due valori contrapposti: per l'uno è la ricerca di scampare alle leggi per evitare la pena, per l’altro è la ricerca di uno scudo contro i soprusi di cui proprio l’avvocato si fa garante. Ma l’episodio si chiude con un ben più curioso commento del narratore: «E lo sposo se n'andò, col cuore in tempesta, ripetendo sempre quelle strane parole: - a questo mondo c'è giustizia, finalmente! - Tant'è vero che un uomo sopraffatto dal dolore non sa più quel che si dica». Le parole di Renzo sono “strane” perché quello che medita il giovane è un “sogno di sangue”, è la vendetta personale scambiata con la giustizia che lo guida istintivamente a una reazione violenta, senza giudizio. La giustizia intesa come vendetta è per Manzoni una perversione etica e linguistica, e per questo chiosa l’atteggiamento di Renzo come insensato, fuori di sé per il dolore. Il viaggio da Monza a Milano sarà un continuo oscillare per Renzo da uno stato d’animo all’altro, dal pensiero della vendetta a quello del perdono, fino all’apice del capitolo XXXV nell’incontro risolutivo con fra Cristoforo che ha scontato su di sé la scelta di operare giustizia confondendola con la violenza, che ha ucciso un uomo per vendicare un torto. Il futuro frate, ovvero il giovane Ludovico, era costretto a «vivere co' birboni, per amor della giustizia», perché la violenza chiama violenza. Ma è giustizia quella che usa la violenza?
Nel confronto tra Renzo e fra Cristoforo, due anime simili dove però il secondo ha messo in atto i pensieri del primo e paga tutti i giorni il peccato nella propria coscienza, la conversione del giovane arriva con la richiesta di perdono da parte di chi è diventato un modello “rieducandosi”, da chi ha imparato dalle proprie colpe un modo nuovo di pensare. Renzo perdona don Rodrigo prima di sapere che è nel Lazzaretto, prima di vederlo malato, e quest’atto gratuito e sincero sblocca la narrazione. La storia può continuare, perché il perdono non è in conflitto con la giustizia ma la porta a un livello più alto, non rimane un evento privato ma ha conseguenze su molte altre persone (se Renzo avesse ucciso don Rodrigo non avrebbe più potuto sposare Lucia, ecc.). La consapevolezza di Renzo è tale che è evidente la differenza con Don Abbondio, personaggio che non matura nell’arco della narrazione, e che ha bisogno della morte di don Rodrigo per celebrare le tanto sospirate nozze; per Renzo la morte dell’antico nemico non è invece necessaria: non è della «peste che fa giustizia» che ha bisogno, non più. Secondo il ragionamento di Frare, alla luce delle parole del Manzoni, la giustizia esiste se si rinuncia ad affermare il diritto con la violenza.
La speculare analisi di Eusebi porta all’interrogativo opposto: somministrando condanne si esercita la giustizia? Non è nel potere dell’uomo revocare la realtà, ma è sua responsabilità prendersi cura delle vittime che devono essere guarite dal rancore. Cade a proposito in questo senso l’esempio del percorso di Ludovico e del perdono ricevuto dalla famiglia dell’ucciso, un perdono gratuito che solleva non solo il carnefice ma anche le vittime che passano dalla «triste gioia dell’orgoglio» all’essere «ripieni della gioia serena del perdono e della benevolenza». A questo perdono sincero, spontaneo, fa invece da contrappeso quello formalistico, vuoto, che non crea relazioni, che blocca la salvezza e il riscatto: è quello del padre di Gertrude che le risponde, dopo averla sorpresa a comunicare con il servo, con la logica del do ut des, «che il perdono non bastava desiderarlo né chiederlo; ch'era cosa troppo agevole e troppo naturale a chiunque sia trovato in colpa, e tema la punizione; che in somma bisognava meritarlo». Paradossalmente si tratta della stessa logica che conduce Lucia a fraintendere la sua liberazione scambiandola per la ricompensa del voto senza cogliere la gratuità dell’evento straordinario da lei stessa provocato, la conversione dell’Innominato. Non è il sacrificio contro se stessa che salva Lucia, ma è il reciproco riconoscimento tra vittima e carnefice che sblocca la situazione: anche Lucia compie un percorso sulla giustizia, accettando umilmente che la sua salvezza non dipende dal suo voto alla Madonna, ma che è gratuita, non ha un prezzo. È un cammino di tutti personaggi verso la verità, che può emergere solo di fronte al perdono, non nella contrapposizione tra le parti.
La giustizia è un incontro salvifico mentre la vendetta personale non ha giustificazioni, non è redimibile; la giustizia non è «un negativo che risponde al negativo», non è mera somministrazione di pene, è l’emergere della verità: in questo senso, la prospettiva futura è di trovare modalità sanzionatorie differenti dalla mera punizione anche in sede di riforma del Codice penale, perché «la risposta al reato non può fermarsi nelle riproduzione per analogia della negatività di quel reato».