Cosa sta accadendo alla televisione? È ancora capace di influenzare e far dibattere l’opinione pubblica o corre il rischio di essere sorpassata dalla rete? Un fatto è certo: una tv è morta, quella analogica, e al suo posto abbiamo quella digitale. Massimo Scaglioni, che insegna Storia dei media nell’ateneo di largo Gemelli, nel suo libro La tv dopo la tv (Vita e Pensiero) racconta questo cambiamento ponendo molti interrogativi anche sul futuro del piccolo schermo. Il volume è stato presentato dall’autore l’11 gennaio, nel corso dell’iniziativa “I mercoledì di Vita e Pensiero”, in un dialogo vivace con il professore di Storia delle televisione Aldo Grasso e il produttore televisivo Sandro Parenzo.
Il 2012 si presenta come un anno di trasformazione importante per la televisione in vista dell’apertura del mercato e quindi di nuove gare per i canali televisivi; il 2011 si è chiuso inoltre con il “caso Santoro” che con il programma Per una notte e uno share di 2 milioni di telespettatori ha evidenziato l’esistenza di un mondo televisivo che va oltre Rai e Mediaset. Tra gli organizzatori di questo “caso” proprio Parenzo che ha raccontato come la volontà di creare una tv differente dai canali oggi predominanti fosse nata in realtà 17 anni fa, quando Montecarlo era stata messa in vendita per la catastrofe finanziaria della Montedison: «La Rai 3 di allora si riunì per creare un nuovo progetto; trovammo i soldi per l’acquisto della rete e andai da Bondi, allora commissario della vendita. Offrimmo quanto richiesto ma poi fu venduta “inspiegabilmente” a Cecchi Gori. Il digitale oggi ha certamente cominciato a mutare una situazione di monopolio perché il pubblico ha cominciato a scegliere».
Aldo Grasso ha invece sottolineato come il salto dal segnale analogico a quello digitale abbia unificato i media (cellulare, pc, radio) visto che oggi è possibile vedere una trasmissione dal web o dal proprio cellulare anche in giorni diversi da quelli della diretta. Sono cambiate le regole del gioco anche se l’Italia ha ancora molta strada da fare per arrivare a sfruttare appieno il cambiamento (pensiamo ai duemila trasmettitori Rai e Mediaset tuttora attivi). Una cosa è certa: «Il concetto di servizio pubblico si è ormai slegato dal canale e appartiene al tipo di programma realizzato; il mezzo è mutato, non si può più parlare di televisione ma di televisioni». Molti sono infatti i mezzi con i quali oggi si guarda la tv e il successo di una trasmissione dipende dalla capacità del programma di creare discorso: se se ne parla sui giornali, se ne discute in rete, si crea il passaparola, i “telespettatori” si incuriosiscono e ne diventano fruitori. Ma è cambiato anche il tipo di fruizione: i giovani non guardano più un programma per intero, ma a frammenti, sfruttando magari anche la possibilità di rivedere solo alcune scene su youtube. «È un mare in cui galleggiano mille frammenti di programmi», soggiunge Grasso. Ma se cambia la fruizione è ancora valido il sistema utilizzato per misurarla? L’Auditel, monopolista del mercato dei consumi televisivi, ha da poco subito una sentenza dell’Antitrust (la pena è una multa particolarmente salata) da cui emerge la responsabilità dell’azienda nel manipolare dati che non riguardano solo un programma in sé ma che hanno la capacità di influenzare altri mercati, a cominciare da quello della pubblicità. Dall’analisi dei tre relatori in realtà l’Auditel usa metodi ampiamente sorpassati di fronte alle variabili moderne. L’ha rimarcato Aldo Grasso: «È come cercare di fotografare la realtà dinamica di oggi con una macchina fotografica analogica e un rullino in bianco e nero. Quello che potrai catturare è solo un fermo immagine parziale e impreciso di una realtà più complessa. La società che l’Auditel cerca di fotografare non esiste più. Il paradosso è che pur essendo inattendibile è ancora il motore principale di giudizio sulla tv». Che dalla ricerca universitaria possa nascere un nuovo sistema scientifico in grado di misurare i consumi televisivi?