Non tutti ci pensano ma tutto il nostro modello di sviluppo si fonda su una cosa: il contratto finanziario. E se questo s’incrina si può star certi che sentiremo la casa tremare dalle fondamenta. È successo qualcosa del genere con il cosiddetto credit crunch, che è stato tanto dannoso per l’economia italiana proprio perché il credito bancario è la prima fonte di finanziamento del tessuto produttivo. Di chi è stata la colpa di questa chiusura di rubinetti? Qual è lo stato di salute delle banche italiane? Sono due quesiti diversi, ma strettamente collegati. Lo mette bene in evidenza il primo numero 2014 dell’Osservatorio Monetario, la pubblicazione coordinata dal professor Marco Lossani e presentata il 15 aprile alla Cattolica di Milano. Tra le finalità del Rapporto, curato dal Laboratorio di analisi monetaria, proprio quella di fornire una valutazione di medio periodo sulla condizione delle banche e del credito in Italia, alla vigilia dell’approssimarsi della Asset Quality Review condotta dalla Bce.
Com’è noto la Banca Centrale Europea si avvia ad assumere in novembre la responsabilità di vigilanza sulle banche dell’area euro, ma prima di raggiungere tale traguardo è in corso un’attività di esame dei bilanci degli istituti (il “comprehensive assessment”) mirato a garantirne la trasparenza e farne emergere le criticità. Buona parte dello studio di questo numero indaga su come il sistema bancario italiano si presenta a questo importante appuntamento.
È il contributo del professor Angelo Baglioni a riassumere i principali punti deboli dei 15 istituti italiani che si sottoporranno agli esami. Sotto la lente sono l’elevata esposizione ai titoli di stato (il “rischio sovrano”), la crescita dei prestiti problematici e, conseguentemente, l’aumento del rischio dell’attività di prestito alle imprese. Mentre si stringeva la famosa morsa del credito, le banche italiane nel biennio 2011-2013 hanno raddoppiato il proprio stock di titoli pubblici, passando da poco più di 200 a oltre 400 miliardi (il 10% del portafoglio bancario). Perché? La risposta sembra essere contenuta nel Rapporto sulla stabilità finanziaria (2013) redatto dalla Banca d’Italia, laddove s’apprende che i rendimenti unitari dei titoli statali, depurati del rischio, hanno superato quelli dei prestiti alla clientela verso la fine del 2011. Tradotto, significa che, a partire da quel momento, era meno rischioso e più redditizio investire sui titoli pubblici, considerati risk free, piuttosto che erogare prestiti.
Ai fini degli stress test della Bce sarà importante capire se l’ipotesi d’insolvenza degli emittenti sovrani verrà ivi inclusa, come spera la Bundesbank, oppure no, poiché le banche italiane, così esposte, vedrebbero esiti molto diversi nei due possibili scenari. Per quanto riguarda, invece, le sofferenze e i crediti deteriorati i segnali dovrebbero volgere verso un miglioramento nel 2014, ma la situazione negli anni precedenti è stata pesante. Il complesso dei crediti deteriorati nel 2013 sono stati il 15% degli impieghi, di cui l’8,1% sono sofferenze (+25% rispetto al 2012).
Quali sono state le conseguenze? L’anno scorso ben tre quarti del risultato operativo delle banche sono stati erosi dalle perdite sui crediti. Da qui si spiega il ricorso al credit crunch. Da questa prudenza, infatti, qualche risultato sui bilanci s’è visto: il patrimonio di base degli istituti è passato nel biennio 2011/13 dal 9% al 10,9% del totale delle attività e «ciò pone il gruppo delle banche sottoposte allo stress test in una posizione di relativa tranquillità», commenta il professor Baglioni.
Resta però aperta la domanda sul colpevole della “chiusura dei rubinetti” del credito. Qualche elemento in più si trova nell’analisi del professor Giovanni Verga che, in qualche modo, allontana dall’indicare il dito contro le sole banche, come questi anni di crisi ci hanno abituato a fare. Analizzando i bilanci d’esercizio di un campione di 31.988 società di capitali non quotate si apprende, infatti, che le imprese più colpite dal razionamento del credito sono state proprio le meno redditive, a elevato rischio di fallimento, tipicamente più piccole. Nello stesso periodo (2012) sono invece cresciuti i prestiti concessi a imprese a basso rischio d’insolvenza, in elevata crescita di vendite e d’investimenti.
Assieme alla minore offerta di prestiti va ricordata anche la riduzione della loro stessa domanda, causata soprattutto dal calo degli investimenti. Perciò sembra quasi inevitabile, dal punto di vista delle banche, ridurre la propria esposizione ai debitori potenzialmente a rischio. Ma non è tutto, perché in quegli anni anche le politiche restrittive dell’era montiana avevano di certo contribuito a peggiorare la solvibilità delle imprese, ostacolandone ulteriormente l’accesso al credito.
Allo stato attuale la necessità di finanziamenti per il rilancio dell’economia confligge dunque con la solidità del bilancio del settore bancario. Questo stretto, forse morboso, legame fra le banche e l’economia italiana pone alcune questioni sul futuro che l’Osservatorio non trascura: se la ripresa italiana dipende troppo da un credito bancario oggi costretto a maggiore prudenza, non sarebbe ora di promuovere nuovi intermediari finanziari e nuove forme di finanziamento per l’economia reale? Del resto nella logica del mercato non servono colpevoli. Servono solo migliori offerenti.