di Giuseppe Lupo e Rocco Papaleo *
Il cinema e la letteratura hanno spesso raccontato mondi paralleli, a volte paesaggi e avvenimenti comuni, ciascuno secondo il proprio codice, senza mai entrare in conflitto. Sulla base di questa premessa è possibile ipotizzare una certa somiglianza (o complementarietà) tra la Lucania narrata nel film Basilicata coast to coast di Rocco Papaleo, che nel 2011 si è aggiudicato il David Donatello come miglior regista esordiente, e quella dei miei romanzi. Della pellicola condivido l’immagine di un Meridione picaresco, visionario, ironico, disincantato, fuori dagli stereotipi. Da qui l’idea di una conversazione a due voci fra uno scrittore e un regista, che la redazione di «Vita e Pensiero» ha inteso promuovere. Quale sia il senso da dare alle narrazioni che riguardano il Mezzogiorno (la Lucania) e quali immagini provengano da esse, il problema delle identità linguistica e antropologica, il rapporto tra mito e modernità, il discorso sul destino di un luogo periferico e fino a pochi decenni fa lontano dalle rotte della civiltà occidentale: questi sono alcuni dei numerosi spunti al centro del dialogo. Tuttavia, insieme a questi temi, emergono i dubbi sul senso di appartenenza e sulla condizione di straniamento, una condivisibile esigenza di rapportarsi agli archetipi, il profondo affetto verso una dimensione culturale che, fra i suoi cantori, vanta illustri predecessori: da Carlo Levi a Pier Paolo Pasolini, da Ernesto De Martino a Rocco Scotellaro, da Leonardo Sinisgalli ad Adriano Olivetti.
Cominciamo questa nostra conversazione dal rapporto tra la Basilicata e il cinema. Una volta, Emiliano Monreale, durante un convegno sulle identità del Meridione, fece un’affermazione che mi colpì: «Quando i registi vogliono parlare di utopie, girano i film in Basilicata». Traendo spunto da questa idea, secondo te i paesaggi della Lucania possono dare testimonianza di questo discorso dell’utopia?
La Basilicata, almeno per quello che mi riguarda, dal punto di vista cinematografico rappresenta uno scenario piuttosto originale e anche abbastanza arcaico. Essendo una regione poco popolata, ci sono grandi spazi non colonizzati dall’uomo, di natura selvaggia, rimasta intatta. Dunque, si presta bene a essere quel “fuori dal tempo” che è adatto per un film a carattere non so se utopistico, ma quanto meno un po’ surreale e comunque fuori dalle coordinate del tempo normale.
Su questo discorso si potrebbe parlare a lungo. Anch’io punto molto sull’idea della terra che non c’è. Addirittura certe volte non chiamo la Basilicata per nome, ma la indico come “la metafora”. Anche perché dove sta la vera Basilicata: sono le persone dentro i confini o quelle sparse nel mondo? A questo punto ti chiedo di chiarificare l’immagine del Sud che ti sei fatto e poi, in seconda battuta, della Lucania.
Riprendendo la tua idea di metafora o di una proiezione non completamente realistica, l’immagine che ho del Sud è quella di una terra insieme arcaica e moderna, un luogo dove la distanza dei tempi è molto grande e visibile. La stessa che ho voluto rappresentare nel mio film: mi piaceva l’idea di poter essere immerso in un “arcaicismo”. Tuttavia, quando giravo con la cinepresa, inquadravo spesso le pale eoliche, i tralicci dell’alta tensione, segni della civiltà più o meno contemporanea. Mi piaceva mettere in contrapposizione questi due elementi, il moderno e l’arcaico, per raccontare una storia che fosse di oggi, ma che avesse anche un riflesso molto forte dei tempi andati.
Anche perché questo discorso si può fare per la Basilicata, terra che si è conservata in alcuni aspetti come era mille anni fa e in altri si è trasformata. Nelle regioni limitrofe purtroppo il passaggio si è modificato, spesso deturpandosi o compromettendosi definitivamente. Il ragionare sul volto di una regione ci introduce in un altro tema. Ho notato che nella narrativa contemporanea il Sud viene rappresentato come luogo del dolore e della morte, si parla come di un mondo funebre a cui reagire con il lamento e la denuncia, senza però che ci sia una briciola di speranza. Insomma, il “modello Gomorra” è dominante. Non so se questo avviene anche nel versante cinematografico. Eppure sono convinto che il Sud (e quindi la Lucania) può essere raccontato in forma visionaria.
Assolutamente sì. Questo grazie al fatto che c’è un aspetto che contraddistingue le popolazioni meridionali, vale a dire lo sguardo ironico, la leggerezza intesa quasi in modo calviniano. Forse azzardo nel dire che Calvino sarebbe stato un grande cantore della Basilicata, con quel suo tono un po’ con i piedi per terra e la testa nelle nuvole. Anzi, sarebbe stato adatto a raccontare non solo la Basilicata, ma il Meridione in assoluto. Il Sud in genere ha una forza creativa, esplosiva, ironica che poi si esplica nell’altro Meridione, quello che sta in giro per il mondo. Perché noi parliamo del Meridione pensando solo alla popolazione che lo abita. Ma il Meridione è anche un popolo che si è staccato dalla propria terra, si è messo in viaggio e ha portato con sé tutte le sue sfaccettature: l’ironia, quell’essere ancorato alle radici e alla tradizione, quel superarla e anche contraddirla.
Gran bella idea questa che Calvino sarebbe stato un perfetto abitatore della Basilicata. Immaginare il ligure Calvino che s’innamora della nostra regione forse è un sogno. Però è vero che il Sud è una terra da trattare con leggerezza, nelle sue contraddizioni e nelle sue varietà. Il mio editore dice che la Basilicata è piena di storie: basta strappare un ciuffo d’erba e ne viene fuori una. Questa è la ricchezza di quel mondo, laggiù i racconti si moltiplicano come nelle «Mille e una notte». Mentre in altre geografie è difficile trovarli o, meglio, sembra che siano uno uguale all’altro e che le persone nei tram, nei treni, negli aerei siano tutti simili tra loro, in Meridione ogni personaggio è un’isola che ti regala una storia.
Questo credo sia una prerogativa del mondo. Ogni parte del mondo racchiude in sé un’esperienza e un racconto. E trovo che la Basilicata, grazie alla sua bellezza e ai suoi scorci, sia una regione molto raccontabile proprio perché non è stata molto raccontata. Come pure finora è stato poco raccontato quel modo di essere, diciamo così, discreto e ironico che contraddistingue i lucani.
Ricordo una scena del tuo film, quando la comitiva arriva sulla strada di Scanzano Jonico, dove si sarebbe dovuto svolgere un concerto, e si accorge di essersi perduta, mancando in questo modo l’appuntamento. Volevi sottolineare che la Lucania è un labirinto oppure che i suoi abitanti sono asincronici rispetto a tutto ciò che deve accadere?
Volevo rappresentare il nostro ritardo atavico nei confronti di tutto. Però, come posso dire, queste sono cose che il grande pubblico non va a cercare. In ogni caso dietro la scena c’era questa idea, ovvero il fatto che i meridionali sono persone che arrivano in ritardo e che tuttavia sanno fare quel salto di qualità e capire che in fondo è per se stessi che si deve lottare e ambire a qualche cosa.
A differenza di una certa cinematografia (e forse questo vale anche per la letteratura), nessuno dubita che, usando il siciliano o il napoletano, non si riesca a farsi capire. Adoperare il dialetto lucano comporta un simile rischio. I tuoi personaggi, invece, parlano un italiano dialettizzato o un dialetto italianizzato…
L’esigenza di comunicare mi ha spinto alla ricerca del tono giusto senza per questo rinunciare alla comprensione di un certo suono, che poi non è andare fino in fondo nella filologia e parlare un dialetto che si parla sempre meno anche in Meridione. Anche quando interpreto i miei personaggi meridionali vado sempre alla ricerca di un suono che sia di volta in volta un po’ più vicino al pugliese, al campano o a questo misto di calabrese del nord che parliamo a Lauria, nel mio paese d’origine: queste “ae”, questi “ou”. Diciamo che vado dietro a una suggestione sonora ed è come una musica, una canzone: più o meno le note sono quelle, ma le puoi suonare in tanti modi. Ormai tutto è italianizzato. La scuola e la televisione hanno creato una lingua. A me personalmente interessa avere tutt’e due le cose: la comprensibilità e una cadenza. Però, nello stesso tempo, l’espressione linguistica la considero un linguaggio teatrale e, dunque, non per forza deve essere filologicamente dialettale, ma avere solo dei suoni, delle assonanze. In Basilicata anche linguisticamente non c’è un’identità precisa che ti consente di dire che quello è il lucano, perché a seconda di come ti sposti – e parlo veramente di pochi chilometri – la lingua cambia completamente. Pensa che solo nel mio paese, composto da due rioni, inferiore e superiore, il dialetto della zona inferiore è diverso da quello della superiore e solo noi del posto riusciamo a coglierne le sfumature.
In questo discorso che tu fai sul dialetto e sull’appartenenza linguistica si nasconde la vera natura, la vera identità di questa terra, che è ibrida, perché in Basilicata c’è un terremoto di dialetti (lo dicono gli studiosi già nell’Ottocento), una differenza nei caratteri somatici, una varietà antropologica, che rendono bene l’immagine di una terra di passaggio, di un grande miscuglio fra mondo levantino-orientale e mondo utopico occidentale. Siamo un luogo di commistioni, un magma di immagini che secondo me non riusciremmo a capire se avessimo i piedi dentro. Ti potrà sembrare un paradosso, ma sono convinto che bisogna fuggire dalla Basilicata (fuga come tradimento che ognuno di noi deve riservare a questa terra) per conoscerla meglio, per amarla e per raccontarla.
Chi è fuori ed è fuggito (neanche di notte e di nascosto, bensì alla luce del sole) e se n’è andato con convinzione, quella terra la ama non perché da fuori la vede meglio, ma perché da fuori la vede peggio. Cioè la vede meno bene perché non è nelle problematiche di ogni giorno, nella mancanza di civiltà e meritocrazia, nell’idea un po’ mafiosa del vivere, di avere delle conoscenze, di avere dei santi in paradiso. Tutte quelle cose, da fuori, non le vedi più, perché non hai a che fare con quelle dinamiche del quotidiano, perché vivi in città. Ormai siamo fuori da tutto ciò e davanti agli occhi abbiamo solo quella parte fantastica del nostro passato di adolescenti: il mito, le giornate di sole, la bellezza della natura, la spensieratezza, la facilità della vita in paese per i ragazzi giovani, l’avere tutto a portata di mano, la tranquillità. Per cui ciascuno di noi pensa a quello, pensa alla sua gioventù.
Una percezione che forse è falsata dalla distanza…
Talvolta pensi realmente «adesso ritorno a vivere lì». Eppure non ci andresti mai, anche se c’è il ricatto del clima, per quanto la Basilicata non sia i Caraibi, visto che, quando fa freddo, fa veramente freddo. E allora alla fine non ci torneresti perché sei abituato a quel grado di civiltà, dove le cose vanno diversamente. Certo, anche il Nord dove abiti tu non è proprio un paradiso terrestre, ma le cose vanno meglio. Per esempio, ho trascorso un mese e mezzo a Torino: una città civilissima, piena di cultura, di interessi, di gente attenta. Lo vedi anche da quello che ti dicono rispetto ai lavori che hai fatto. Sono popoli più emancipati e alla fine si sceglie di vivere in quella dimensione. Inutile dire che c’è un aspetto più romantico che mi lega alla mia gente, un senso di appartenenza e, nello stesso tempo, un sentimento di riconoscenza per l’essere considerato una sorta di “beniamino”. Ma ripeto: non so se adesso ci tornerei a vivere.
Ci sono stati molti registi che hanno girato in Basilicata: penso a Lina Wertmüller, Pier Paolo Pasolini, Mel Gibson. La lista è lunga. Ti sei ispirato a qualcuno, hai avuto dei maestri fra quelli che hanno scelto il palcoscenico naturale della Lucania, o ne hai avuto altri? E quante difficoltà ha incontrato uno come te, nato a Lauria, a entrare nel mondo del cinema?
I modelli sono tantissimi e, quindi, nessuno in particolare. Non c’è un autore, un regista, uno scrittore che considero mio padre spirituale. C’è una famosa canzone di Paolo Conte, secondo cui il maestro è nell’anima e lì dentro uno mette tutto. Io ho 53 anni e le esperienze che ho vissuto le ho messe tutte nella mia anima. Le cose che faccio, infatti, esprimono tutto quello che è entrato dentro di me sotto forma di suggestioni; queste, a loro volta, hanno subito una trasformazione e poi sono state tirate fuori. Ma le fasi di questo processo non so descriverle con esattezza. So solo di essere uno che naviga a vista, che non ha un progetto definito, mutuato da cose precise. Posso dire che tra i registi dell’attuale panorama cinematografico trovo interessanti i lavori del finlandese Aki Kaurismäki, che apprezzo per la sua ironia. Certo non è che mi sia ispirato a lui, ma sicuramente lo guardo con trasporto. Quanto alle difficoltà di entrare nel mondo del cinema: i miei studi li ho fatti a Roma, dove vivo da quando avevo 18 anni e dove ho fatto la gavetta. Qui è iniziato tutto. Il cinema non è stata la cosa a cui sono approdato subito. Ho cominciato con il teatro, studiando recitazione, e poi dopo anni, circa dieci, sono entrato nel mondo del grande schermo.
Anch’io sono rimasto in Basilicata fino a 18 anni. Poi dopo il terremoto sono venuto a Milano per frequentare l’università e qui sono rimasto, ma non ho rimpianti, anzi mi è servito a decantare i ricordi, ad abbracciare la Basilicata nella sua globalità. Ho la sensazione che voi del cinema – ma la cosa funziona anche per gli scrittori (in Basilicata c’è una pattuglia di autori interessanti che si è affermata a livello nazionale: ci sono Raffaele Nigro, Gaetano Cappelli, Mariolina Venezia, Andrea Di Consoli) – tutte le volte che realizzate un film cercate di dare un’idea totale di questa terra. Anche noi, quando scriviamo un libro, ci proponiamo di raccontare non solo una storia con un plot, un intreccio, bensì lo spirito, l’identità della Lucania quale metafora del mondo.
Trovo che il mio sia un caso particolare. Parlare della Basilicata non era un ampliamento della storia, piuttosto una scelta, perché consideravo la Basilicata un personaggio del film, doveva essere una sorta di narratore della storia. Proprio perché la storia in sé era un po’ esile, la Basilicata fungeva da filo conduttore e recitava la parte che ho voluto assegnarle. Pertanto, non era solo sfondo, ma narrazione. Con questo stratagemma narrativo è divenuta un personaggio. Tant’è che, se ora dovessi fare un altro film, forse sarei più neutro e non scenderei così nel dettaglio. Anche perché la parte visiva del film, il plot, non è filologicamente lucano: parliamo di personaggi che potrebbero essere ovunque. Insomma, è la Basilicata che, recitando se stessa, si è messa in evidenza, mostrando la sua essenza e tutte le sue contraddizioni, ovvero essere una regione contemporaneamente aperta e chiusa, moderna e arcaica.
* Rocco Papaleo, nato a Lauria nel 1958, è attore, regista e cantante. Dalla Basilicata si trasferisce a Roma per gli studi universitari ed entra in contatto con il mondo dello spettacolo. La sua attività spazia dal cabaret al cinema, dal teatro alla musica. Con il film Basilicata coast to coast vince il Nastro d’Argento 2010 e il David di Donatello 2011 nella categoria “miglior regista esordiente”.
Giuseppe Lupo, scrittore e saggista di origini lucane, è ricercatore di Letteratura italiana contemporanea all’Università Cattolica del Sacro Cuore. È autore, fra l’altro, di L’americano di Celenne (2000), Ballo ad Agropinto (2004), La carovana Zanardelli (2008) e L’ultima sposa di Palmira (2011), Premio Selezione Campiello.