“Die Männlein, Weiblein, traurige Gesellen […] tun wie arme Puppen vor dem Tod“. Omini, donnette, triste compagnia: come miseri fantocci si muovono davanti alla morte. Parole dure e crude, apparentemente spietate, quelle con cui Georg Trakl (1887-1914) rappresenta la sua epoca, la incarna e la assume su di sé in tutte le sue lacerazioni, proprio perché si sente sradicato da ogni contesto sociale e straniero alla propria casa, così come alla civiltà e al mondo. L’universalità della sua poesia consiste nell’estrema esperienza di un destino che sembra aver privato l’individuo, ormai ridotto a povero burattino, di ogni rapporto con la totalità degli altri uomini. Leggere il poeta espressionista Georg Trakl non è certo semplice e immediato, sia per il forte contenuto dei suoi scritti che per la forma stilistica degli stessi; è necessario che in un primo momento il lettore visualizzi le immagini e poi ascolti le emozioni, le pulsioni e i brividi che la poesia desta nel suo intimo per giungere infine a una comprensione non sempre facile del testo. Questo è l’approccio sinestetico con cui Cesare Lievi, attore, poeta, drammaturgo e regista di fama internazionale, ha commentato cinque poesie di Georg Trakl, presentando finemente una delle voci più alte della letteratura tedesca del Novecento.
Giovedì 25 novembre, nell’Aula Magna dell’ateneo bresciano, Cesare Lievi è stato ospite del quinto incontro del ciclo Teatro 2010, insieme all’attore Emanuele Carucci Viterbi che ha interpretato i componimenti analizzati dall’artista bresciano, ora sovraintendente e direttore artistico del Teatro Nuovo Giovanni da Udine.
Per Trakl il mondo è costituito da frammenti che vanno alla deriva, da particolari spezzati e disgregati che, nella loro miseria, possono esprimere soltanto la nostalgia di un’unità perduta. Il poeta vive sino in fondo questa scissione dell’epoca, nella vita così come nella poesia. Nella sua vicenda privata, agitata da ombre e da ossessioni, egli anticipa e patisce le catastrofi mondiali, l’agonia della civiltà che sgretola tutti i fondamenti della vita, sino a quel calvario della prima guerra mondiale nel quale egli si consuma e si distrugge. Il singolo non può prendere partito, la sua unica autenticità possibile è la posizione marginale e sperduta. L’avventura randagia della poesia, che scopre la verità della condizione umana, è irriducibile al programma politico, ma proprio in questa distanza risiede il suo valore, poiché essa illumina violentemente il nucleo della situazione storica, quell’antitesi fra il singolo e la società che è propria del primo Novecento.
Per motivi biografici e stilistici, Trakl può essere inserito in un particolare solco della letteratura tedesca che accoglie figure importantissime come Friedrich Hölderlin e Paul Celan, poeti che condussero un’esistenza fortemente disperata e drammatica. Al di là delle tristi vicende che segnarono la loro vita, questi scrittori sono accomunati dal medesimo intento: essi sono poeti dell’autenticità dell’animo umano che però, nel tentativo di svelare ciò che è il senso originale dell’uomo, non hanno più a disposizione un linguaggio adatto; sembra che la loro lingua, ormai consumata, abusata e logora, si rifiuti di dire e di significare. Hölderlin scardina il tedesco per giungere all’autentico, anche se poi questo sforzo lo porterà alla pazzia; il poeta rumeno ebreo Celan, autore della toccante Todesfuge, fa scoprire alla lingua dei suoi torturatori capacità significative incredibili attraverso una poesia che, come un messaggio in una bottiglia gettata in mare, forse giungerà a una qualche sponda del cuore. Anche Trakl interviene sul tedesco: egli non ne distrugge la sintassi, ma predilige un accostamento paratattico di immagini profetiche – la critica lo ha definito il profeta della “finis Austriae” – che, calate in un contesto paesaggistico variopinto, rappresentano icasticamente la Verwesung, ossia la putrefazione della vita che nel suo essere è già morte. Pochissimi possono salvarsi da questo inesorabile disfacimento: solo i non nati, die Ungeborenen, che non sono ancora entrati nella simbiosi vita-morte, possono vivere beati. Verwesung ed Ungeborene sono strettamente legati all’intenso rapporto incestuoso che Trakl ebbe con la sorella Margarete; l’esito di un eros carnale senza amore non può che essere la squallida putrefazione dei corpi. Il rapporto tra Georg e Margarete fu sempre vissuto come un legame proibito e colpevole, nella consapevolezza che non avrebbe mai portato alla nascita dei non nati. L’idea di non nato rimanda a una dimensione sospesa, a un momento di passaggio tra l’eterea inconsistenza e la deperibile concretezza; nelle poesie di Trakl, tale transizione è evocata anche dalla descrizione della Dämmerung, ossia del crepuscolo, che potrebbe indicare la conclusione del giorno che si spegne nella notte, ma anche la fine della notte che si apre al giorno. In forza di questo significato ambivalente, non è sempre chiaro se il poeta sia rivolto all’oscurità o alla luce.
I tratti distintivi della poetica di Trakl si possono cogliere nelle cinque poesie che Cesare Lievi ha magistralmente analizzato durante la lezione-spettacolo. In “Allerseelen”, il poeta si ritrova in figure come quelle del solitario, del morente e del viandante; egli parla di sé in terza persona, poiché l’io è ormai frantumato e corrisponde solo alla funzione che di volta in volta il soggetto svolge. In questo componimento emergono associazioni cromatiche inusitate: Trakl usa il colore molto liberamente in modo da mostrare sempre le tinte dell’animo umano. Nella poesia “Psalm”, dedicata a Karl Kraus, vengono contrapposti due mondi: da un lato quello contemporaneo a Trakl e dall’altro quello di un paradiso perduto, putrefatto, in cui anche “le ninfe hanno abbandonato i boschi”. Un esempio di non nato è Elis, protagonista dell’omonima poesia, che riesce a essere né vivo né morto; la perfezione della sua condizione è racchiusa nelle parole “o come sono giusti, Elis, tutti i tuoi giorni”. Pur non essendo uno scrittore credente, Trakl esprime sempre una profonda spiritualità che poggia anche su immagini cristiane: è questo il caso di “Helian”, che in origine significava “redentore”, poesia in cui il Cristianesimo sembra dare speranze che poi svaniscono, anche se Dio è sempre presente pur nella sua invisibilità. La summa emotiva e poetica di Trakl si trova senza dubbio in “Grodek”, scritta in occasione di un atroce massacro avvenuto nella cittadina galiziana, in cui egli augura ai morenti di ricevere sempre in futuro un saluto salvifico come quello che la sorella Margarete gli rivolgeva; l’impossibilità di una nuova generazione dopo il conflitto bellico è lapidariamente sancita dall’ultimo verso in cui il poeta invoca i nipoti non nati, die ungeborenen Enkel.
Al termine dell’incontro, Lievi ha presentato la sua messa in scena del Barbablù, tratto dall’omonimo Puppenspiel di Georg Trakl. Si tratta di uno spettacolo visivo in cui immagini vere si incastrano e si affiancano a quelle più intime e segrete evocate dal testo per fornire un’esperienza estetica unica. Protagonisti sono tre uomini che rispettivamente rappresentano tre stagioni della vita: un giovane, impaurito dalla violenza dell’amore, che si immola inutilmente per la donna che Barbablù ucciderà, un adulto e un vecchio che prova pietà per Barbablù poiché probabilmente qualche anno prima ha vissuto le medesime vicende ed ora può dire di averle superate. Perno della storia è la prima notte di nozze tra Barbablù e l’ennesima moglie: in una dimensione metateatrale, l’orco inscena ciò che accadrà quella notte come se le azioni degli uomini dovessero necessariamente corrispondere a quelle delle povere marionette, le arme Puppen, che però, a differenza degli esseri umani, fortunatamente non sono mai nate.