di Luigi La Via *
Tornare da un viaggio è spesso il momento del ricordare: far rivivere i ricordi più belli nella mente, fondendo insieme vecchie abitudini da riassaporare e un po’ di nostalgia. Il mio ritorno dall’Uganda è stato, per certi aspetti, radicalmente diverso. Da una parte, mentre con l’aereo sorvolavo per la seconda volta l’immensa distesa sabbiosa del Sahara, tornavo con estremo piacere al mio arrivo a Kampala: la hit “Badilisha” che risuonava da ogni angolo della strada, i colori sgargianti dei mercati all’aperto, la terra rossa, l’inglese incomprensibile, gli ugandesi e il loro concetto del tempo, i bambini sempre in posa per una foto, il mio compagno di viaggio Massimo, i pazienti con un’imperitura voglia di vivere, che niente avrebbe mai abbattuto, e i medici sempre disponibili a insegnare e sempre umili nel chiedere aiuto. Ho passato in rassegna anche le numerose visite all’orfanotrofio locale, dove ho lasciato una parte del mio cuore, il team di medici italiani che trascorrono le vacanze lavorando al Benedict Medical Center (Bmc), l’ospedale che ci ospitava, e la missione di father John, dove pregavamo e mangiavamo insieme ad amici di tutte le età.
D’altra parte, però, altri ricordi indelebili coloravano la mia mente di tinte più cupe. Le visite all’ospedale militare di Bombo e a quello pubblico di Mulago ci hanno portati a contatto con la realtà più cruda e drammatica della medicina di un Paese del terzo mondo. Vedere pazienti sofferenti lasciati a terra, senza speranza di sollievo, affetti dalle più terribili patologie conosciute o giovani donne costrette a partorire in stanze piccole e sporche o, ancora, bambini rimanere senza cure, sono cose che mi hanno sconvolto ma, soprattutto, indignato.
La prima reazione che ho avuto è stata una rinuncia rassegnata, come presa di coscienza che non potevo far niente per cambiare la realtà a cui assistevo. In un secondo momento ho reagito, trovando in me una forza che non conoscevo, convincendomi che se posso aiutare anche minimamente quella gente è mio preciso dovere farlo. Non posso non pensare, in questo momento, a una poesia di Konstantinos Kavafis, che, paragonando la vita a un viaggio verso Itaca, recita: “In Ciclopi e Lestrigoni, no certo, né nell’irato Nettuno incapperai, se non li porti dentro, se l’anima non te li mette contro”.
La mia esperienza nel cuore dell’Africa è stata una sfida contro le mie paure, i miei limiti, la mia natura, ma allo stesso tempo un viaggio in una terra stupenda, sebbene ricca di contraddizioni, che sorride, canta e soprattutto balla. Dal coraggio degli ottimi medici locali, abituati a reagire a qualunque difficoltà, ho ricevuto in dono la voglia di completare gli studi per ritornare in Africa da medico. Se numerosi sono stati i Lestrigoni e i Ciclopi a sbarrarmi il cammino, è proprio grazie a questi che ho trovato la mia strada. Proprio grazie a loro ho raggiunto la mia Itaca.
* 21 anni, quarto anno della laurea in Medicina, facoltà di Medicina e Chirurgia, sede di Roma