di Floriana Cerniglia *
In queste settimane continua la partita del regionalismo differenziato. Si tratta della possibilità prevista dal terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione che consente alle Regioni a Statuto ordinario di sviluppare condizioni ulteriori di autonomia legislativa e amministrativa rispetto ad alcune funzioni residuali (ed esclusive) dello Stato e a tutte le funzioni concorrenti come definite all’art. 117, terzo comma.
Sono in gioco un ventaglio di competenze molto ampie (ventitré in tutto) che potrebbero passare nelle mani delle Regioni, e che penetrano in ambiti e materie molto importanti: ad esempio l’istruzione, il paesaggio e i beni culturali, le infrastrutture, il territorio ed anche fisco e finanza. Già nella scorsa legislatura tre regioni (Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna) si erano attivate per intraprendere questo percorso di maggiore autonomia ed avevano sottoscritto con il governo Gentiloni dei Pre-Accordi su ambiti di autonomia in cinque materie: politiche del lavoro, istruzione, salute, tutela dell’ambiente ed ecosistema, rapporti internazionali e con l’Unione Europea.
Tra i meccanismi di finanziamento si diceva che bisognava legare la stima del fabbisogno, rispetto a queste materie, al gettito dei territori implicando ad esempio un fabbisogno più elevato nei territori con un gettito più elevato. Nella nuova legislatura, la partita tra Governo e Regioni è ricominciata da capo, sia rispetto alle materie sia rispetto alle modalità di finanziamento. Le materie ora richieste sono 23 per il Veneto, 20 per la Lombardia e 16 per l’Emilia Romagna, mentre non registriamo nessuna rivendicazione di legare il fabbisogno al gettito. In un consiglio dei Ministri del dicembre scorso si predisponeva un cronoprogramma: entro il 15 febbraio 2019 ci sarebbe dovuta essere una firma su nuovi Accordi o Intese. Questa firma invece ancora non c’è stata e tutto il processo sembra ora (soprattutto in queste ultime settimane) in una fase di stallo. I problemi sono essenzialmente tre:
La procedura. Rimane da capire se, effettivamente, il Parlamento deve essere esautorato dalla possibilità di emendare i testi delle intese in considerazione dell’ampiezza e dei contenuti delle stesse.
Le materie. Si tratta di un ventaglio molto ampio che tocca macro-ambiti di potestà statale molto importanti, che hanno a che fare con la soddisfazione di esigenze configurabili come diritti costituzionali. Siamo quindi di fronte a un processo che non mira solo a valorizzare legittime differenze territoriali ma a una riforma che mira a rafforzare il ruolo politico delle Regioni rispetto allo Stato centrale.
Le risorse. Nelle bozze dei pre-accordi si dice che l’attribuzione delle risorse sulle materie che passano alle Regioni dovrà avvenire, in una prima fase, sulla base della spesa storica e poi sarà ricalcolata sulla base di fabbisogni standard che dovranno essere stimati da un apposito comitato Stato-Regioni da costituire. Il finanziamento di queste risorse che vanno alle regioni, avverrà attraverso la determinazione di compartecipazione regionale al gettito dell’Irpef maturato nel territorio. Le disposizioni di questo comma non risultano però del tutto coerenti con la legge delega 42/2009 sul federalismo fiscale, che non viene mai citata nelle bozze. Inoltre questa questione delle risorse viene demandata a un’apposita commissione paritetica (art. 3 delle bozze) composta da rappresentanti nominati dal governo regionale e dal Ministro per gli affari regionali. In sostanza la questione delle risorse, ancora una scatola vuota, passerebbe in mano alla trattativa tra due poteri esecutivi, esautorando anche in questo caso il ruolo del Parlamento.
In conclusione, occorre ancora fare molta chiarezza sui contenuti di queste bozze per evitare di percorrere strade che potrebbero incidere negativamente su un auspicabile processo armonico di sviluppo e crescita del nostro Paese.
* Direttore del Centro di Ricerche in Analisi economica e sviluppo economico internazionale (Cranec)