Buttare sui giovani tutta la responsabilità di reagire o, al contrario, gettare solo sulle istituzioni il compito di garantire il lavoro come un diritto: è il modo, tutto italiano, di rispondere a un momento drammatico per l’occupazione nel nostro Paese. Il vero rischio, secondo lo psicologo del lavoro Cesare Kaneklin, presidente del Nucleo di valutazione dell’Università Cattolica, è la radicalizzazione di queste due posizioni, che impedisce di cogliere che i problemi del mondo del lavoro non vengono solo dalla crisi economica, ma soprattutto dalla difficoltà di affrontare i cambiamenti generati dalla globalizzazione.
«Nello sgomento, nella rabbia e nella disperazione che si diffondono a fronte del moltiplicarsi di dati che vengono forniti dai media (ma anche dai genitori nei confronti dei figli) sull'aumento della disoccupazione e sulle possibilità sempre più ridotte di trovare e mantenere un lavoro, si tendono a consolidare due posizioni che non aiutano a vedere il lavoro che oggi "c'è e non c'è"», spiega il professore.
Quali sono? «La prima insiste sulla necessità che si mobilitino capacità individuali, che i singoli si attivino, mostrino doti imprenditoriali e disponibilità a cambiare contenuti dell'attività professionale, a trasferirsi altrove. È ricorrente un messaggio antico nella cultura italiana: "Ognuno trovi il modo di arrangiarsi", con in aggiunta un rimprovero alla presunta passività generalizzata dei giovani: "Datevi una mossa", "Ciascuno è artefice del proprio destino"».
E l’altra? «La seconda posizione insiste sulla necessità che le istituzioni (governo, sistema delle imprese e sindacati) predispongano e allestiscano opportunità di lavoro accessibili a tutti. Per esempio, alcuni laureandi pensano e dicono: "Ora che ho tanto studiato ho ben diritto a un posto di lavoro».
È un problema di sguardo sulla realtà? «Sì. La paura e il radicalizzarsi di queste due posizioni impedisce di leggere ciò che sta accadendo. Non incoraggia la capacità di rappresentarsi alternative, di desiderare e di riconoscere negli altri risorse e potenzialità per costruire insieme».
Con quali conseguenze? «Quel che sta capitando nel mondo del lavoro in Italia non è effetto della crisi economica, ma della nostra difficoltà a fronteggiare i cambiamenti provocati dalla cosiddetta globalizzazione: primo fra tutti la impossibilità dell'Occidente a continuare a mantenere la disoccupazione confinata nel Sud del mondo. Oggi il lavoro si sposta rapidamente, le possibilità di lavoro aumentano, ma aumentano anche i concorrenti: produttori e lavoratori di quattro continenti».
Cambiano le strutture e l’organizzazione del lavoro, ma mutano le stesse professionalità. «Proprio così. Se guardiamo al passato vediamo che per i giovani laureati esistevano tre grandi sbocchi professionali: le professioni forti di stampo ottocentesco (il medico, l'avvocato, ecc) tutelate dagli Ordini professionali, di grande prestigio sociale e ritorno economico; la carriera del professional e del manager, acquisita e sviluppata in un’azienda e spesa per tutta la vita nella stessa o nello stesso settore produttivo, grazie a un contratto di lavoro a tempo indeterminato. Il terzo sbocco era quello di consulente in senso lato: vaghi generalisti che lavoravano in progetti mirati, raccoglievano informazioni, scrivevano rapporti, supervisionavano il lavoro di altri, davano informazioni e consigli.
Che ne è di queste figure? «Il primo sbocco tiene ancora oggi, seppur con notevoli cambiamenti. Gli altri due sono entrati in una crisi profonda. Il professional aziendale e il manager, cardini dell'azienda tradizionale, stanno scomparendo per la disintegrazione del lavoro a tempo indeterminato: cercano di riciclarsi in un mercato del lavoro che tende a non considerare importanti le loro conoscenze e il loro saper fare. E così anche il vago generalista, ricercatore e manipolatore di dati e informazioni, con conoscenza su tantissimi argomenti, ma non approfondita, che si trova fortemente minacciato dallo sviluppo travolgente della tecnologia, soprattutto dell’Information & Communication Technology. Sono figure che, a dir poco, si stanno profondamente trasformando».
Possiamo vedere questo fenomeno anche in positivo, con l’emergere di nuovi lavori e nuove figure professionali? «Dobbiamo provare a immaginare come sarà il mondo del lavoro nel prossimo ventennio. Non solo la globalizzazione e lo sviluppo rapido della tecnologia, ma anche i cambiamenti della società (la longevità, le immigrazioni...) e la carenza di risorse energetiche porteranno cambiamenti profondi e ineluttabili nel mondo del lavoro e anche nei nostri stili di vita».
C’è già qualche segnale? «Lo sforzo di rispondere al cambiamento ineluttabile è già visibile, a livello internazionale, entro alcune tendenze che rappresentano altrettanti nuovi sbocchi del mercato del lavoro. Lo sviluppo di grandi e reticolari aziende internazionali; la crescita di piccole e medie imprese fortemente innovative; lo sviluppo di organizzazioni volte a tutelare il mondo crescente delle fragilità personali; l'urgenza di sviluppare progetti mondiali finalizzati alla tutela della madre terra (acqua, aria, suolo) sono tutti esempi di contesti entro i quali si stanno sviluppando nuovi modi di lavorare e nuove figure professionali».
Cosa può decretare il successo di questi nuovi sbocchi del mercato del lavoro? «Sono contesti entro in quali le competenze di ciascuno di noi sono importanti se contribuiscono a creare valore. Non basta fare, eseguire, fabbricare. Creare valore, fruttificare, richiede di pensare come un artigiano, ma poiché si lavora in un mondo rapidamente mutevole, non si può pensare di apprendere per imitazione. Pensiamo a un mondo che chiede innovazione, che chiede di saperci affiancare ad altri nella quotidianità per liberare fantasia e immaginazione».
Ci sono dei rischi da evitare? «I prodotti culturali della seconda rivoluzione industriale sono stati la lettura semplificata dei problemi e l'individualismo. Bisognerà anche fare i conti con quest’ultimo che già oggi è – e in futuro sarà – la strada che produce frammentazione sociale, privazione della fantasia e della creatività, solitudine, esclusione. Insomma: nuove povertà».