Destinano la maggioranza del loro reddito all’abitazione e alle bollette e sono costretti a ricorrere alle mense dei poveri. Eppure si destreggiano nella scelta dei consumi quotidiani per non sentirsi ai margini e mantenere alta la stima di sé. È quanto emerge dallo studio “Negoziare la necessità: scelte di consumo e scelte di risparmio”, realizzato dal Centro per lo studio della moda e della produzione culturale (Modacult) dell’Università Cattolica. La ricerca, frutto della collaborazione con le Università di Milano, Bologna, Sassari, Trento, ha fotografato le abitudini di consumo di famiglie con almeno due persone che vivono sotto la soglia di povertà - misurata sulla base di una spesa mensile inferiore ai 970 euro secondo la definizione data dall’Istat - in quattro diversi contesti regionali: Lombardia, Trentino Alto Adige, Emilia Romagna, Sardegna. L’indagine, raccolta nel volume Consumi ai margini, a cura di Laura Bovone e Carla Lunghi (Donzelli Editore) è stata presentata lo scorso 23 ottobre nel corso di un convegno al quale sono intervenuti, oltre alle curatrici, Giancarlo Rovati dell’Università Cattolica, Andrea Vargiu, dell’Università di Sassari, Pierluigi Musarò, dell’Università di Bologna, Giovanna Gadotti, dell’Università di Trento, Lorenzo Domaneschi, Paola Rebughini, Paola Bonizzoni, Luisa Leonini dell’Università di Milano.
Consumi ai margini fornisce un’insolita chiave di lettura della povertà, dal momento che oltrepassa il diffuso stereotipo secondo il quale le persone a basso reddito sarebbero escluse dalla possibilità di scegliere liberamente beni e pratiche della loro vita quotidiana. «In particolare, abbiamo indagato i comportamenti di consumo di italiani e immigrati, fotografato ambienti e oggetti, analizzato criteri di scelta e culture, modalità di risparmio e priorità di spesa», ha spiegato Laura Bovone, docente di Sociologia della comunicazione nonché direttore del Modacult. Ne è emerso un quadro variegato, spesso trascurato dalle consuete indagini di tipo quantitativo sulla povertà.
Ecco allora che a Sassari c’è chi si circonda di oggetti costosi, quasi a voler ricercare in essi un segno di identità. A Trento, invece, si fa un uso articolato di tecnologie mediali, considerate indispensabili per inserirsi nel contesto ospitante e per mantenere vivo il legame con il paese d’origine. Tutti gli intervistati, poi, hanno un’idea personale di decoro domestico. «Una certa dose di creatività - ha continuato la professoressa Bovone - non è preclusa a chi ha pochi mezzi economici a disposizione: viene esercitata non solo per trovare un rimedio qualsiasi al bisogno, la tipica arte di arrangiarsi, ma anche per mantenere alta la stima di se stessi e destare la memoria della propria storia».
Sul fronte dei dati quantitativi, l’aspetto più innovativo è una fotografia più uniforme delle condizioni di povertà relativa alle regioni prese in esame. «Abbiamo cercato di identificare soglie di povertà regionali, diversamente da quanto fa l’Istat, in modo da tenere conto delle differenze territoriali in termini sia di costo sia di abitudini di consumo», ha osservato Giancarlo Rovati, docente di Sociologia che insieme a Gisella Accolla, ricercatrice dell’Osservatorio Regionale sull'Esclusione Sociale (Ores), ha cercato di fornire una rilettura delle fonti statistiche ufficiali, a partire dall’indagine Istat 2006 sui consumi delle famiglie e i segnali di disagio sociale. L’utilizzo delle soglie regionali - ha aggiunto Accolla - porta a livelli di povertà ben più uniformi nelle quattro regioni con un’incidenza che oscilla tra il 9,4% (Lombardia) e il 10,5% (Sardegna) contro il 4,7% e il 16,9% rilevata dalle stime ufficiali. Così risulta che in Lombardia si è poveri se la spesa mensile media è inferiore ai 1.199 euro, in Emilia Romagna ai 1.220 euro, in Trentino Alto Adige se non supera 1.084 euro e in Sardegna 822. Risultano, poi, evidenti le differenti allocazioni delle risorse adottate dalle famiglie «povere allo stremo», ossia con livelli di spesa insufficienti sia per l’alimentazione sia per le altre categorie di consumo, e da quelle «moderatamente povere», vale a dire coloro che riducono la spesa nei consumi extra pur di non rinunciare a sufficienti livelli di spesa alimentare nelle quattro regioni. Per esempio, prendendo in considerazione la spesa primaria, se una famiglia non povera spende in media 460 euro, una famiglia moderatamente povera ne spende 275 fino ad arrivare ai 140 di quelle più indigenti. Queste ultime, infatti, comprimono più di tutte le altre famiglie i consumi alimentari poiché destinano oltre il 50% della loro spesa per l’abitazione, le bollette, i mobili e i servizi per la casa.
Ciò non significa che rinuncino a determinate spese. Per abbigliamento e calzature le famiglie povere spendono mensilmente circa 27-28 euro (18%) contro i 150 euro di quelle non povere. Alle vacanze destinano il 15% delle risorse economiche (110 euro), percentuale che in Emilia Romagna raddoppia (31,6%). Il 62%, poi, possiede un’auto, con una punta del 67% nel caso delle famiglie dell’Emilia Romagna. Sul versante dei beni tecnologici le preferenze vanno, nell’ordine, al telefono cellulare (media nazionale 69%) al videoregistratore (51%), all’impianto hi-fi (39%) con picchi regionali ben più elevati nel caso dei poveri della Lombardia (rispettivamente con il 76, 60, 46%) e, in subordine, dei poveri della Sardegna, del Trentino Alto Adige, dell’Emilia Romagna. «Il luogo in cui si è povero non è irrilevante - ha detto Rovati -. La povertà è più intensa nelle aree molto ricche, anche se qui sono maggiori le opportunità di procurarsi i prodotti alimentari più essenziali. Tuttavia, la povertà non è un astratto, ma è un concreto e ha il volto delle persone, come mostrano le interviste raccolte nel volume. Non va infine dimenticato che la crisi economica ha indebolito la fascia dei ceti medio-bassi. Una condizione di debolezza che può rappresentare uno scivolo verso la povertà se non si interviene».