L’Osteoartropatia di Charcot, più comunemente nota come piede di Charcot, è una complicanza del diabete che colpisce le ossa e le articolazioni del piede: come conseguenza le ossa si frammentano e si deformano tanto da perdere i normali rapporti articolari. La neuropatia diabetica sembra giocare un ruolo necessario ma non sufficiente per spiegarne la comparsa, considerata la grande differenza tra l’elevata incidenza della neuropatia e quella del piede di Charcot, che è molto bassa. Un gruppo di ricercatori dell’Unità Operativa di Medicina interna e angiologia del Policlinico “Agostino Gemelli”, diretta dal professor Giovanni Ghirlanda, ha voluto così indagare il possibile coinvolgimento di altri fattori, come per esempio la genetica, nello sviluppo del piede di Charcot. Un particolare assetto genetico dell’osteoprotegerina, il gene che regola il rimodellamento osseo (processo ciclico in cui il tessuto osseo più vecchio viene rimosso per essere sostituito con altro tessuto più giovane) sembra essere protettivo contro la comparsa del piede di Charcot. La scoperta potrebbe avere importanti ripercussione anche nella pratica clinica, sia in ambito preventivo-diagnostico, poiché potrebbe individuare tra i soggetti affetti da neuropatia diabetica quelli più a rischio di sviluppare il piede di Charcot, sia per la terapia, in quanto esistono anticorpi monoclonali in grado di bloccare il riassorbimento osseo.
È questo il risultato dello studio che per primo dimostra il ruolo svolto dalla genetica nello sviluppo di tale complicanza diabetica, condotto nell’ambito dell’Unità operativa semplice di Diabetologia del Gemelli, guidata da Salvatore Caputo, e pubblicato di recente sulla prestigiosa rivista scientifica Diabetes Care. A oggi non esiste un trattamento farmacologico dimostrato efficace nel bloccare la progressione di questa malattia diabetica. L'incidenza è circa 0,1-5% in pazienti diabetici complicati da polineuropatia periferica, ma rappresenta quasi sicuramente una complicanza sottostimata. La maggior parte dei soggetti colpiti ha un’età compresa tra i 50 e i 60 anni, con una storia di malattia diabetica di circa 10 anni.
«Poiché la neuropatia è una condizione necessaria, ma non sufficiente per lo sviluppo del piede di Charcot – spiega l’autore dell’articolo, Dario Pitocco dell’Unità operativa di Diabetologia del Gemelli - abbiamo ideato uno studio con l’obiettivo di indagare il possibile coinvolgimento di altri fattori, come per esempio la genetica. In particolare ci siamo focalizzati sul possibile legame tra due polimorfismi del gene che sintetizza l’osteoprotegerina (G1181C e T245G) e il piede di Charcot. Abbiamo scelto l’osteoprotegerina (OPG) perché rappresenta un importante modulatore del rimodellamento osseo, regolando la funzione degli osteoclasti, cellule maggiormente coinvolte nel determinare il riassorbimento dell’osso, e il piede di Charcot è caratterizzato da un’ elevata osteoporosi in piedi che abbiano perso la normale innervazione sensoriale. Per arrivare a questo risultato, abbiamo impostato uno studio caso-controllo in cui sono stati arruolati 59 soggetti con Osteoartropatia di Charcot, 41 con neuropatia diabetica senza Osteoartropatia di Charcot e 103 soggetti sani di controllo al fine di valutare l'impatto di due polimorfismi (SNP) del gene osteoprotegerina (G1181C e T245G) sul rischio di sviluppare l’Osteoartropatia di Charcot».
I risultati dello studio hanno per la prima volta dimostrato che un particolare assetto genetico per il gene dell’osteoprotegerina, caratterizzato dalla doppia omozigosi CC/TT, risulta fortemente protettivo contro la comparsa di questa complicanza diabetica. «Questi risultati – conclude il dottor Pitocco, invitato dall'American Diabetes Association quale speaker alla sessione dedicata alla patologia nel congresso di giugno 2011 a San Diego - potrebbero avere un’importante ripercussione anche nella pratica clinica, sia per quanto riguarda la prevenzione e la diagnosi, perché potrebbe individuare nei soggetti complicati da neuropatia diabetica quelli più a rischio di sviluppare il piede di Charcot, che per la terapia: sono infatti disponibili anticorpi monoclonali che si oppongono all’azione del Rankl, proteina che antagonizza l’effetto dell’osteoprotegerina, modulando il riassorbimento osseo». L’utilizzo dell’anticorpo monoclonale andrebbe dunque a ristabilire un equilibrio, che nel piede di Charcot probabilmente si è rotto, tra l’azione del Rankl e quella dell’osteoprotegerina, la cui funzione risulta deficitaria per un difetto di sintesi quantitativo o qualitativo legato alla genetica.