«Amavo i film Disney che raccontavano di persone. Come Le avventure di Davy Crockett. Quelli che parlavano di uomini coraggiosi. Di pirati e di avventure. Crescendo ho amato Un uomo per tutte le stagioni, Il dottor Živago e Tutti insieme appassionatamente. Erano i miei preferiti, anche se molto diversi tra loro». È un Randall Wallace a tutto campo quello che abbiamo incontrato in occasione della lezione inaugurale del master in International Screenwriting and Production (Misp) diretto dal professor Armando Fumagalli. Il celebre sceneggiatore hollywoodiano, autore di Braveheart e regista de La maschera di ferro racconta le sue passioni che non si esauriscono solo nel cinema.
Mr. Wallace, preferisce lavorare come sceneggiatore o come regista? «Sono discipline molto diverse. Anche se hanno un analogo principio base: raccontare una storia. Ma in forme diverse. La più grande differenza è che scrivere è un’attività solitaria mentre la regia si gioca interamente nel comunicare, nel connettersi con gli altri. La scrittura è la relazione con te stesso, con la musa. E con gli angeli che ti sussurrano all’orecchio. Fare il regista significa formare una comunità che crede nella costruzione della stessa casa».
Che tipo di relazione ha con i suoi attori? Quando scrive un ruolo ha già in mente qualcuno in particolare per interpretarlo? «Quasi mai. Solo ora sto lavorando a un progetto per il quale mi “anticipo” qualcuno. Ma è la prima volta che ho già in mente degli attori. E una delle ragioni di questo è che un ruolo che ispira davvero un attore è di solito qualcosa che non ha mai provato. Un suo aspetto che non è mai stato messo in luce».
A proposito della sua attività come songwriter. Quanto è importante la musica nella sua vita? Anche un film ha un suo ritmo, non è così? «Questa è una questione sulla quale ho riflettuto molto. Specialmente quando ho quasi perso una mano a causa di un’infezione. Stavano per amputarmela. E quando ho saputo che invece avrei continuato ad averla ho ripreso a suonare il pianoforte. Ne ho comprato uno nuovo. Un Bösendorfer, uno strumento favoloso. La musica è il mio primo amore. E non dimentichi mai il tuo primo amore. È come la più pura delle preghiere. E un film senza musica è morto. Io ho sempre lavorato con lo stesso compositore, Nick Glennie-Smith che ha portato una tale magia ai miei film. Non so dove la musica andrà nella mia vita. Ma ora è diventata qualcosa tra me e Dio. Suono solo per lui».
Alexandre Dumas ha insegnato a tutti noi a trasmettere la storia attraverso l’intrattenimento. Ma nessuno può contare sui suoi libri come ricostruzioni affidabili degli eventi. Quanta libertà si concede quando il film al quale sta lavorando deriva da fatti reali? «Grande domanda! Me la sono posta in ogni singolo film che mi ha visto coinvolto. Anche oggi per me questa domanda è vitale. Spesso sono arrivato a dirmi che tento di non permettere ai fatti di sopravanzare la verità. Questa è un’idea pericolosa e importante allo stesso tempo. Cos’è per noi la verità, ora? Il modo in cui le future generazioni racconteranno una storia sarà di certo diverso. Perché potranno essere diverse le domande alle quali cercheranno di dare una risposta. Dobbiamo tentare di essere coraggiosi. A Roma mi hanno portato a vedere Caravaggio. Toglieva il respiro. Caravaggio dipinge Gesù che chiama San Matteo in abbigliamento rinascimentale. Era abbastanza coraggioso e stimava a sufficienza il proprio pubblico da dire: “Non cerco di mostrare una piccola porzione di realtà ma piuttosto una verità”. E noi dobbiamo avere la stessa audacia di Caravaggio».