Che fine fanno le bioplastiche una volta arrivate negli impianti industriali per la raccolta della frazione organica? Si biodegradano come promesso? Parte da questa domanda la ricerca sviluppata dalla Facoltà di Scienze Agrarie Alimentari e Ambientali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, che si è posta come obiettivo lo studio della degradazione di due tra le bioplastiche maggiormente presenti oggi sul mercato: sacchetti per la raccolta differenziata dell’umido, composto da una miscela a base di amido, e bottiglie di acido polilattico (PLA).
“Questi materiali sono frutto della ricerca volta a trovare un’alternativa sostenibile alle plastiche originate da fonti combustibili fossili” sottolinea la dott.ssa Francesca Bandini, dottoranda della Scuola di Dottorato AgriSystem e prima autrice dello studio. “Le bioplastiche, cioè i materiali plastici da risorse rinnovabili, possono essere degradate nell’ambiente grazie all’azione di microrganismi e in determinate condizioni di tempo, temperatura e umidità”.
Ma, nella pratica, funziona tutto come ci si aspetterebbe?
“Per simulare fedelmente il processo di smaltimento, nel nostro studio abbiamo adottato le condizioni di tempo e temperature di un reale impianto di trattamento dei rifiuti solidi urbani che si compone di una prima fase di digestione anaerobica (assenza di ossigeno) e da una seconda fase di compostaggio aerobico (in presenza di ossigeno). Abbiamo valutato la biodegradabilità in base alla perdita di peso delle bioplastiche testate e alla produzione di metano, verificato la qualità del compost finale attraverso delle prove di fitotossicità su diversi semi e, infine, sviluppato test fisico-chimici per valutare le caratteristiche termiche e strutturali dei materiali prima e dopo il trattamento”.
Cosa ne è emerso? La bioplastica è davvero biodegradabile?
I risultati delle prime analisi, che richiederanno una validazione più approfondita in impianti pilota, sembrano confermare la mancata biodegradazione del PLA in condizioni anaerobiche e la presenza di tracce ancora visibili di PLA nel compost finale. Le analisi da noi condotte hanno inoltre mostrato che questo materiale, durante il compostaggio, provoca un notevole aumento di acidità nell’ammendante ottenuto, con un impatto negativo sulla germinabilità di pomodoro e lattuga. La bioplastica a base amido, invece, è risultata totalmente biodegradabile in ambiente anaerobico e non risulta incidere sulla qualità del compost finale, che ha infatti un pH vicino alla neutralità.
Possiamo quindi affermare che alcune bioplastiche, quelle derivanti dall’acido polilattico, non si biodegradino come promesso. Val quindi la pena continuare a commercializzarle, dando l’illusione al consumatore di fare una scelta ecologica acqusitandole?
Nonostante le bioplastiche oggi rappresentino un mercato limitato, circa l’1% delle 359 milioni di tonnellate di plastica prodotte annualmente nel mondo, sono materiali destinati a crescere in futuro per motivi ambientali, economici e sociali. Per questo è opportuno che questi polimeri, oltre a rispondere ai requisiti dello standard europeo EN13432, siano sottoposti ad un’attenta valutazione in relazione alle reali condizioni degli impianti in cui avviene il di trattamento. Inoltre, anche in vista del loro sviluppo futuro, è necessario studiarne il loro reale destino per garantirne la corretta gestione e il massimo dell’efficienza in termini di biogas prodotto e compost di qualità ottenuto. Su questo aspetto la ricerca può fare molto al fine di implementare il processo e favorire le attività di degradazione microbica e la correzione del pH.
C’è quindi un problema di gestione di alcune bioplastiche, che può inficiarne l’effettiva biodegradabilità. Ma non è l’unico problema, se consideriamo l’elevata presenza di plastiche tradizionali mischiate alle bioplastiche negli impianti di raccolta.
In effetti molti biopolimeri sono spesso confusi dal consumatore per l’aspetto simile alle plastiche di origine fossile. Viceversa, nella raccolta della frazione organica vengono spesso rinvenuti materiali plastici non biodegradabili. I nostri prossimi studi coinvolgeranno nuovi manufatti di bioplastiche (come le posate monouso) in impianti pilota e valuterà il problema delle contaminazioni incrociate tra le plastiche tradizionali di origine fossile e quelle di origine biologica, materiali chimicamente ben diversi e destinati a processi che dovrebbero essere ben separati.