Sono continuamente chiamati supereroi i medici e gli infermieri che in questi giorni di epidemia da Coronavirus sopportano turni infiniti e rischiano il contagio ogni giorno, anche se loro non ci stanno ad essere definiti così, semplicemente “facciamo il nostro dovere”, dicono, “questo è il lavoro che abbiamo scelto.”
Ma agli occhi di Paolo Fossati, laureato Dams e docente del laboratorio di Media e reti digitali alla sede di Brescia dell’Università Cattolica nonché critico cinematografico e collaboratore del Giornale di Brescia, la moglie Francesca, medico di Rianimazione all’ospedale Civile di Brescia, appare proprio come un super eroe, da supportare anche con il blog My Lovely Superhero, creato a fine febbraio e che ha subito attirato molti lettori per l’originalità del racconto, con un stile vivace, duro ma anche dolce e pieno di speranza.
Da dove nasce l’idea di raccontare a tutti cosa avviene in casa Fossati? «Innanzitutto dal desiderio di supportare mia moglie Francesca in un modo originale, che le faccia sentire la mia partecipazione emotiva alla dura lotta che si trova ad affrontare. E poi mi sono reso conto di avere, vivendo accanto a lei, un osservatorio speciale sulla situazione e ho pensato di condividerlo».
La vostra esperienza è diventata paradigmatica anche per altri? «Credo di adempiere al mio ruolo di padre delle nostre tre figlie (4, 8 e 12 anni) anche riflettendo su tutti i dettagli di questa emergenza (e il mio modo di ragionare è battere sui tasti davanti alla pagina bianca) per saperli poi spiegare a loro, disorientate come tutti davanti ad un cambiamento di stile di vita repentino, quanto reiterato settimana dopo settimana. E poi, soprattutto nella prima fase, a fine febbraio, c’era la speranza di sensibilizzare chi vive in altre zone del Paese e del mondo (questa la ragione delle traduzioni inglese) ed era ancora in tempo per proteggersi dal contagio, prima che fosse pandemia. Giorno dopo giorno mi sono reso conto di poter tratteggiare, attraverso la nostra famiglia, un ritratto universale».
Chi rappresenta la moglie-medico? «Francesca è diventata un personaggio, rappresenta tutti i sanitari impegnati in prima linea. Nulla di inventato, ma lei non è un volto, è un nome. Questa è un’operazione letteraria, è un diario con la velleità di diventare pagina dopo pagina quello che mi piace definire un romanzo d’informazione. Oggi svolge un compito, quello di intrattenere ed informare, in futuro vorrei fosse una testimonianza dal fronte, una raccolta di dispacci utili a metabolizzare quanto accaduto durante la guerra».
Come scegli i temi da sviluppare? «Mi lascio ispirare dalle conversazioni con Francesca, dai dati di cronaca (c’è un post sulla rivalità tra Brescia e Bergamo che si trasforma in empatia, solidarietà tra vittime), da quanto accade in famiglia e ultimamente anche dai lettori che mi scrivono raccontandomi le loro storie (è successo, ad esempio, che mi chiedessero di riflettere sui pericoli che corrono i dipendenti dei supermercati). Tutto è rielaborato attraverso due lenti focali: una narrazione capace di regalare anche momenti di leggerezza (e avere tre bambine in casa riempie la vita di aneddoti divertenti) e una particolare attenzione all’utilizzo del cinema e dei prodotti culturali (mio ambito di ricerca e docenza) per rileggere la contemporaneità».
Superhero è tua moglie Francesca, uno dei camici verdi che cercano di salvare molte persone di questi tempi. Com'è vivere accanto a una persona, tua moglie, la mamma delle tue figlie che rientra fra gli "eroi" di questa “guerra”? «È come ritrovarsi in un vortice di emozioni: ci sono l’orgoglio per il suo coraggio, l’apprensione per i rischi che corre e il desiderio di aiutarla, per quanto possibile. L’istinto sarebbe quello di seguirla in corsia: sembra una follia, ma pensando alle tante e ripetute similitudini tra l’emergenza Covid-19 e una guerra, aggiungerei il desiderio di molti - me compreso - di arruolarsi, strada che per ovvie ragioni di mancanza di competenze non è percorribile. Almeno non fino a scendere in trincea, accanto a lei, in Terapia Intensiva. Ma ognuno di noi può fare qualcosa per supportare chi è in prima linea, proprio partendo dalle proprie capacità. C’è chi regala ottime e apprezzate pizze all’ospedale e chi scrive storie per dimostrare la propria vicinanza. Le seconde non riempiono la pancia, ma qualche cuore lo hanno fatto battere, ultimamente. E credo che riuscire a farne vibrare tanti, tutti allo stesso ritmo, sia un bellissimo obiettivo da inseguire».
Pensi che il tuo blog possa essere d'aiuto per coloro che lo leggono? «La speranza è essere d’aiuto ai lettori, senza arrogarmi poteri terapeutici, semplicemente puntando all’effetto positivo che possono avere le storie narrate con sincerità. Ritengo che intrattenere tentando di innescare riflessioni, sia in questo momento molto importante. Se poi qualcuno trova addirittura rassicurazione mi fa piacere, perché non tento di edulcorare la realtà, dunque probabilmente il sentimento di serenità nasce dalla sensazione di sintonia con chi scrive, di una fratellanza evocata».
Che tempo è questo? «È il tempo di resistere, poi inizierà l’epoca della ricostruzione di tutte quelle dinamiche umane e sociali che attualmente subiscono interruzioni e lacerazioni. Dovremo fare i conti con il vortice che ci ha investito, ognuno con le proprie ferite e i propri lutti. Sono convinto che la strada giusta non sarà dimenticare, ma rielaborare quanto è accaduto. Metabolizzare. Prepararsi a una ricomposizione sociale duratura, quando il desiderio di riabbracciarsi tanto evocato in questi giorni potrà avverarsi».