La presenza ubiquitaria delle organizzazioni criminali e la ritenuta impossibilità del loro annientamento hanno costituito, per lungo tempo, un autentico leit motiv. Oggi può ancora affermarsi che «la mafia» sia «dappertutto» e che non sia concretamente pensabile un suo sradicamento? Uno sguardo più realistico, capace di svincolarsi da prospettive autoreferenziali, maturate in certi ambienti del cosiddetto movimento antimafia, dischiude nuove piste di analisi. La mafia delle stragi, la mafia “dei corleonesi” – che «è stata un unicum anche nella storia della mafia siciliana» – è stata sconfitta e la necessità di «registrare il cambiamento», di alimentare «approcci culturali diversi» diventa non solo un atto di ossequio alla realtà, ma anche un dovere politico-pedagogico.
È questa la conclusione cui perviene il professor Costantino Visconti, docente di Diritto penale all’Università di Palermo e autore del volume «La mafia è dappertutto». Falso!, edito da Laterza e presentato giovedì 26 gennaio nell’evento ospitato dal “Centro Studi Federico Stella sulla giustizia penale e la politica criminale”, nella Sala Negri da Oleggio dell’Università Cattolica del Sacro Cuore.
Ai dubbi di Luigi Ferrarella, giornalista del Corriere della Sera e moderatore dell’incontro – il quale si interroga su quale sia il significato da attribuire, oggi, alla categoria «mafia» –, Giuseppe Pignatone, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma, risponde affermando che la «fine» della «mafia» – che coincide idealmente con la cattura di Bernardo Provenzano – è da intendersi con riferimento alla sola mafia stragista e non alla mafia tout court.
Le condizioni che hanno consentito, in passato, a quel modello criminale di proliferare – prosegue Pignatone – si connettono alla presenza di una direzione strategica unitaria che oggi è, invece, frammentaria, nonché alla primazia delle associazioni mafiose nel traffico mondiale degli stupefacenti: circostanza, quest’ultima, che ha permesso a «Cosa Nostra» di sviluppare e conservare una significativa indipendenza sul piano economico, rafforzando il potere delle cosche, per lanciare quella «sfida allo Stato» che ha determinato la situazione di allarme sociale avuta a partire dagli anni ’80 del secolo scorso. A ciò si aggiunge un elemento ulteriore: l’impiego a cavallo tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 del Novecento, della gran parte delle risorse dello Stato per la lotta al terrorismo interno, con il conseguente aumento dello spazio di azione delle organizzazioni di tipo mafioso.
Tuttavia, il fatto che, oggi, la mafia sia «silente» e non manifesti il proprio potere attraverso eventi sanguinosi di grande portata – si domanda, in apertura del proprio intervento, Ilda Boccassini, Procuratore aggiunto presso il Tribunale di Milano – è dovuto a una condizione di indebolimento della potenza criminale o, diversamente, al mutamento di una modalità di agire che ha ormai “fatto il suo tempo”? La definizione di «Cosa Nostra» come «organizzazione-sogliola», che opera attraverso un meccanismo latente di affermazione della propria forza ben descrive la sua tendenza a operare nell’ombra.
Ma qual è la «profondità dei nostri mezzi di conoscenza»? Siamo veramente in grado di analizzare e comprendere la portata di tale fenomeno? «A volte» – sottolinea il professor Gabrio Forti, preside di Giurisprudenza e direttore del Centro Studi “Federico Stella” – «si imputa al giudicante o al pm di non rispettare il principio della responsabilità penale “per il fatto”», nel senso che la condanna o l’assoluzione «finiscono con l’essere condizionate da precomprensioni antropologiche», parte inscindibile del meccanismo di allocazione delle responsabilità. Secondo un approccio giusletterario alla spiegazione del fenomeno – prospettiva coltivata dal Centro Studi mediante il ciclo seminariale “Giustizia e letteratura”, giunto quest’anno alla sua ottava edizione –, condanna e assoluzione sono legate all’esigenza di «dare senso ai frammenti della realtà», perché è solo la «storia di ciascun individuo», la «scaltrezza delle narrazioni» che consente di attribuire significato al quadro probatorio e indiziario.
La fase conclusiva dell’incontro ha riguardato la valutazione del quadro normativo esistente: con specifico riferimento a quella «zona grigia» di contiguità – dove il vantaggio si sovrappone all’assoggettamento – che interessa i rapporti tra imprenditoria e criminalità organizzata, Ilda Boccassini propende per la conservazione della normativa esistente, mentre il professor Costantino Visconti auspica una disciplina ad hoc da riservare al concorso esterno in associazione a delinquere di stampo mafioso.
Ciò che andrebbe combattuto, sottolinea l’autore del libro, è quella «banalizzazione del dramma penale», la sua riduzione a «merce di cui tutti possono discutere» che «impedisce di vedere altre possibili soluzioni».
Soltanto una valorizzazione del «pluralismo critico e del dibattito democratico» possono fungere da antidoto a quella «sospensione del passato» che porta ancora con sé l’incapacità di prendere atto che la realtà è mutata in meglio è che si è avverata la profezia di Leonardo Sciascia a proposito dell’antimafia, diventata nel tempo un potere sul quale è doveroso esercitare un controllo democratico, senza temere censure e facili etichettamenti. Una diversità di “sguardo”, rileva infine Pignatone, riprendendo il Discorso del Santo Padre Francesco ai membri del Consiglio Superiore della magistratura del 17 giugno 2014, consentirà ai magistrati di «discernere con obiettività», esercitando la prudenza, qualità dimenticata, che è invece «virtù di governo», attraverso la quale «ponderare con serenità le ragioni di diritto e di fatto che debbono stare alla base del giudizio».