di Claudio Lucifora *
Sin dalla seconda metà degli anni ’70 una serie di direttive europee ha contribuito a ridurre le differenze di genere favorendo l’inclusione delle donne nel mercato del lavoro ed estendendo il principio di pari opportunità oltre agli aspetti monetari anche alle condizioni di lavoro e alla progressione di carriera. In particolare, la Conferenza di Pechino del 1995 ha rappresentato un punto di svolta nel processo di pari opportunità di genere, creando le basi per un’azione globale di lotta alle differenze di genere (la “Piattaforma d’azione di Pechino”). Il trattato di Amsterdam del 1997 ha elevato l’eguaglianza di trattamento di genere a diritto fondamentale da rispettare e tutelare nell’ambito delle azioni di policy della Comunità europea. Di fatto, in Europa, la partecipazione delle donne è aumentata dal 55% dell’inizio degli anni ’90 a oltre il 66% del 2014, mentre in Italia il tasso di attività femminile nel 2014 si colloca ancora ben al di sotto della media comunitaria (54%).
Fmi, alcune evidenze empiriche. Tra i fattori che hanno contribuito maggiormente al processo di convergenza di genere sono senza dubbio da considerare sia i cambiamenti culturali avvenuti nei confronti dell’emancipazione delle donne dai ruoli tradizionali di responsabilità e cura della famiglia, sia i cambiamenti avvenuti nelle politiche di sostegno alla partecipazione femminile e conciliazione dei tempi di lavoro e, non ultimo, la caduta del tasso di fertilità. Come discusso in un recente rapporto del Fondo monetario Internazionale (FMI), se le donne fossero in grado di sviluppare appieno il loro potenziale sul mercato del lavoro il processo di crescita economica ne beneficerebbe enormemente. L’evidenza empirica riportata nel Rapporto dell’FMI mostra come la perdita di potenziale di crescita che deriva dagli squilibri di genere sul mercato del lavoro arrivi a pesare più del 27% in termini di riduzione del PIL pro-capite a livello globale.
La situazione nel nostro Paese. In Italia, per esempio, gli squilibri di genere si manifestano soprattutto nella segregazione occupazionale delle donne in alcuni settori e professioni ad elevata concentrazione femminile e in parte nella relativamente scarsa presenza delle donne nelle posizioni di comando nelle imprese e nella società civile. Secondo i dati della Commissione Europea, nelle principali società quotate europee solo il 5% degli amministratori delegati sono donne e solo il 16% occupa un posto nel Consiglio di amministrazione (CdA). Tuttavia, da questo punto di vista, l’Italia recentemente può vantare un risultato di riguardo ottenuto grazie all’introduzione di quote di rappresentanza di genere (le cosiddette “quote rosa”) nei consigli di amministrazione e nei collegi sindacali delle società quotate che ha portato, in poco tempo, la presenza femminile nei vertici delle imprese da meno del 5% del 2005 a quasi il 12% del 2014 (al secondo posto dopo la Norvegia).
Jobs Act e misure politiche contro le disuguaglianze di genere. Le politiche di pari opportunità che hanno dato maggiori risultati per combattere le disparità di genere nel mercato del lavoro passano da misure ‘soft’ di conciliazione dei tempi di lavoro e famiglia, all’estensione di congedi parentali e misure di sostegno ai redditi delle madri lavoratrici, fino a interventi più ‘incisivi’, come l’introduzione di quote di rappresentanza di genere ai vertici delle aziende e nella vita pubblica, precedentemente menzionate.
In questo senso molte delle misure introdotte dal governo con il ‘Jobs Act’ mostrano di andare nella direzione giusta. L’estensione del congedo parentale, le misure dirette a favorire il telelavoro e lo ‘smart-working’ aumentando la flessibilità nei tempi di lavoro dovrebbero contribuire a migliorare l’equilibrio e la condivisione dei carichi di cura e lavoro all’interno della famiglia (il cosiddetto ‘work-life balance’). Il rifinanziamento di misure a sostegno delle madri lavoratrici come i voucher per la ‘baby-sitter’ o per la frequenza di asili nido dovrebbero incentivare il rientro delle neo mamme al lavoro e ridurre le assenze prolungate che spesso sono la principale causa di abbandono del lavoro. Anche le misure attese per i lavoratori autonomi (il ‘Jobs Act’ del lavoro autonomo) che mirano ad estendere la platea dei beneficiari del congedo parentale, vanno nella direzione di riequilibrare le condizioni di lavoro e la conciliazione anche per il lavoro indipendente. Resta tuttavia da capire se queste misure siano abbastanza incisive per modificare lo squilibrio che tuttora persiste nella divisione dei carichi di cura all’interno della famiglia tra uomini e donne. Quello che sembra necessario è proprio un profondo cambiamento culturale che metta uomini e donne sullo stesso piano tanto nel mercato del lavoro, quanto nella gestione delle responsabilità familiari. Ma per questo la strada da percorrere è ancora lunga.
* Ordinario di Labor Economics nella facoltà di Economia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore