di Beatrice Barra e Natale Ciappina
È un legame reciproco quello tra diseguaglianze e polarizzazione del lavoro. La polarizzazione consiste nella concentrazione dei redditi di lavoro in due poli distanti e opposti tra loro, ed è determinata dalla diseguaglianza negli ambienti lavorativi. Da una parte, secondo l’economista Alberto Cova, vi sono i «detentori di redditi legati all’ambito economico vecchi e nuovi, costituiti da chi ha il governo delle imprese». Negli ultimi tempi, tuttavia, a causa della rivoluzione tecnologica, il mondo del lavoro si è arricchito di nuovi lavori ‘atipici’, che prevedono scarse tutele nei salari e regolamentazioni normative povere di contenuti.
Per Paolo Sestito, della Banca d’Italia, nell’ultimo trentennio si sono sì ridotte le diseguaglianze, ma solo a livello globale, con una maggiore crescita dei Paesi in via di sviluppo che ha accorciato le differenze reddituali rispetto alle economie più avanzate. Nel caso italiano, «al netto dell’aumento dei prezzi degli immobili, sia i salari che i profitti hanno subìto una contrazione». E, di conseguenza, la classe media si è svuotata, favorendo il processo di polarizzazione.
Secondo il professor Lorenzo Cappellari le diseguaglianze andrebbero analizzate alla luce della trasmissione intergenerazionale, misurabile con la Great Gatsby Curve, attraverso cui è possibile quantificare come le carriere dei figli siano correlate a quelle dei genitori. «Il nepotismo esiste, anche per le dinamiche di network del lavoro attuato dalle aziende, ma non sembra essere il responsabile delle inefficienze legate all’immobilità intergenerazionale», che dipende più dai processi formativi. Questi ultimi, talvolta, causano una dispersione del talento quando i figli “bravi” di famiglie non abbienti non hanno la possibilità di emergere.
Sullo squilibrio generazionale, si concentra Alessandro Rosina, docente di Demografia dell’Università Cattolica, secondo cui «questo Paese non dà fiducia ai giovani, non garantendo loro un’adeguata formazione in termini di sviluppo, declinato dal punto di vista delle sfide di questo secolo». L’Italia, infatti, è uno dei Paesi che in Europa ha investito meno nella valorizzazione delle competenze nei nuovi settori avanzati e competitivi dei giovani, che continuano a emigrare, come dimostrano gli ultimi dati Istat.
La diseguaglianza in aumento in Italia nell’ultimo ventennio e la polarizzazione del lavoro nel nostro Paese, tuttavia, non sembrano incentivare il conflitto sociale. Una tesi paradossale sostenuta da Mauro Magatti. Il sociologo della Cattolica definisce quella in cui viviamo una “società psicotica”, in cui «il conflitto non esiste e si tende sempre a far finta che tutto vada bene. A lungo andare questa situazione diventa però insostenibile. Non si riesce più ad accettare l’idea che bisogna fare una serie di cose per generare lo sviluppo economico». L’obiettivo dell’Italia, dunque, non dovrebbe più essere quello di trovare il modo di uscire dalla crisi, bensì quello di attuare un processo di sviluppo coerente e al passo con le innovazioni del nostro secolo.