«Non tradire la tradizione»: è un raffinato gioco di assonanze quello utilizzato da Rémi Brague, professore emerito di filosofia medievale e araba all'Université Pantheon-Sorbonne (Parigi I) e di filosofia delle religioni europee al'Università Ludwig Maximilian di Monaco, per parlare di “tradizione e innovazione” e della multistratica relazione tra passato e futuro, ospite dell’ateneo lo scorso 22 ottobre per iniziativa della rivista internazionale Philosophical News.
Il filosofo delle religioni, membro dell'Institut de France, Academie des Sciences Morales et Politiques, che vanta tra le numerose pubblicazioni Il futuro dell'Occidente, La saggezza del mondo, Il Dio dei cristiani, unico Dio?, è stato da poco insignito da Benedetto XVI del Premio Ratzinger, giunto alla seconda edizione, ormai da molti considerato il “Nobel” per la teologia. Le motivazioni ufficiali recitano: «Per la trasmissione di un sapere che unisce scienza e sapienza, rigore scientifico e passione per l'uomo, perché possa scoprire l'arte del vivere. Ed è proprio di persone che, attraverso una fede illuminata e vissuta rendano Dio vicino e credibile all'uomo d'oggi, ciò di cui abbiamo bisogno».
Non tradire la tradizione è un monito che Brague lancia all’uomo occidentale, che ha sulle spalle un’immagine negativa del proprio passato, rappresentato come una serie ininterrotta di crimini: la conquista dell’America, la colonizzazione dell’Africa, la Shoah… E, per converso, immagina altre civiltà come «innocenti». Un pensiero che è alimentato da un processo di decostruzione culturale del passato sfruttato anche dai media. Il problema principale, avverte, è la nostra inclinazione a una confessione dei peccati senza assoluzione e senza perdono, che si traduce in un esercizio perverso, in quanto impedisce di agire, ci paralizza. «Per uscire da questo complesso, la confessione, che ha una sua ragion d’essere, dovrebbe essere completata, cioè resa positiva, attraverso l’assoluzione e il perdono dei peccati; ma questo perdono può venire solo da Dio».
Rigettare il passato non è la strada per andare avanti, afferma il filosofo, che evoca la lezione di Hannah Arendt per cui ogni esser umano porta con sé una novità assoluta. Una verità che rischia di essere estremizzata sia dal “rivoluzionario” che, pensandosi come “innovatore”, nel liberarsi di tutto ciò che lo precede, non fa che ripetere gesti di chi lo ha preceduto. Sia, dall’altro lato, dal “reazionario”, che ha la tendenza a esagerare “l’alterità del passato”, cristallizzandolo in un ideale impossibile da riproporre nel presente e ancor meno nel futuro.
«Chi rispetta la tradizione - afferma il filosofo francese - è spesso etichettato come conservatore. Personalmente questo aggettivo ha assunto per me un senso più positivo dopo un’operazione subita tre anni fa. Un intervento chirurgico è detto “di conservazione” quando si sforza di togliere il meno possibile degli organi lesi», spiega Brague arrivando al cuore della dicotomia tradizione/innovazione: la virtù della tradizione va riportata alla pietas latina, quella di Enea che trasferisce i suoi Penati da Troia al Lazio e che seppellisce suo padre. È il sentimento del rispetto della tradizione, che si porta con sé. Un rispetto che, però, non deve irretire: «È necessario sapere che noi siamo stati l’avvenire del nostro passato per poter essere il passato del nostro avvenire». «Forse oggi - conclude Brague - è difficile trasmettere qualcosa, ci vuole una volontà, un progetto positivo, ed è più semplice affidarsi alla tradizione della pigrizia, di quello che riceviamo già fatto, che non richiede fatica né progetto. Il problema di questo nostro tempo diventa allora quello del coraggio: ci vuole coraggio per trasmettere qualcosa, per preparare il futuro e non accontentarsi di ricevere quanto il passato ci ha trasmesso». Non c’è fedeltà senza rischio.