Perché una Cappella dedicata a San Francesco nel cuore dell’Università Cattolica? Per capirne il significato è necessario dare uno sguardo alla storia dei nostri fondatori: P. Agostino Gemelli e Ludovico Necchi. Lo facciamo attraverso alcuni stralci della vita di Necchi narrata nella bellissima biografia di Orazio Petrosillo.
Il 10 dicembre 1902, seguendo un arcano disegno della Provvidenza, Ludovico Necchi ritorna per un nuovo appuntamento di grazia all’ombra della basilica di Sant’Ambrogio, che segna le maggiori tappe della sua esistenza. Qui svolge per un anno il compito di soldato della patria terrena e di samaritano dei corpi nell’ospedale militare di piazza Sant’Ambrogio. è giunto alla metà esatta della sua vita: ventisette anni sono trascorsi dal battesimo all’attuale meraviglioso livello di santità laicale e altri ventisette lo attendono - fino alla prematura morte - di ammirevole esercizio di virtù cristiane. Proprio durante il servizio di leva, matura il frutto più prezioso dell’incessante semina da lui compiuta negli anni liceali e universitari: la conversione di Edoardo Gemelli, il leader dei giovani socialisti, il compagno dalla personalità tutta fuoco e fiamme. Tra le conversioni, questa di Gemelli è senz’altro la più clamorosa, la più feconda di conseguenze, la più preziosa. L’energia finora posta al servizio di utopie rivoluzionarie sarà completamente dirottata per il Regno di Dio e il medico socialista diventerà frate francescano e fondatore dell’Università Cattolica.
L’anno di volontariato poteva svolgersi per entrambi i neolaureati nella scuola dei medici militari di Firenze oppure i due amici potevano scegliere di diventare «volontari di un anno» a Milano come infermieri. Gemelli e Necchi optano per questa seconda soluzione che li fa entrare nell’ospedale militare di piazza Sant’Ambrogio (attuale sede della nostra Università), a pochi passi dalla casa natale di Vico. Perciò sono costretti ad arruolarsi come semplici soldati aspiranti alla carica di aiutanti di sanità e quindi obbligati a seguire anche i corsi di infermiere. Ma mentre Edoardo, com’egli racconterà, mal sopportando tale funzione umile, in breve si fa destinare a servizi scientifici, Vico adempie tale suo servizio per i malati con serenità e pazienza, non distinguendosi in nulla dai religiosi che prestavano servizio come aiutanti di sanità, per esempio caricandosi di bottiglie di latte o di ceste di medicine da distribuire ai degenti.
Edoardo propone all’amico di fargli ottenere un posto come il suo, ma Vico declina l’offerta per poter dare il buon esempio. Ben presto stringe amicizia con alcuni commilitoni, religiosi o seminaristi, e tra loro con il frate minore Arcangelo Mazzotti, poi arcivescovo di Sassari. Gli incontri con Edoardo, trovandosi i due in reparti differenti, avvengono di giorno nella sala di preparazione delle medicine (l’attuale sede della Cappella San Francesco) e la sera nella sala di accettazione degli ammalati, luogo di convegno degli aiutanti di sanità. Il medico socialista, che a Pavia aveva tanto combattuto contro gli studenti cattolici, è entrato nell’ospedale militare con i primi dubbi sulla validità del pensiero positivista. Ma non lo dà certamente a vedere. Anzi, è sempre il solito anticlericale spavaldo. Anche Necchi, che ha notato l’intimo tormento di Edoardo, non dà a vedere di essersene accorto, ma intensifica le preghiere per lui.
Gemelli, mentre teorizza la possibilità di una morale senza sanzione, osserva la condotta di quanti, intorno a lui, predicano austerità, sincerità e perfetta coerenza di pensiero e di azione. La vita comunitaria è impietosa nello smascherare le ipocrisie. Non si può bleffare quando si sta gomito a gomito per mesi interi.
Dove va Vico - si chiede Gemelli - la mattina quando sguscia via prestissimo in silenzio, sottraendo tempo prezioso al necessario riposo? Una sera, con fare disinvolto, Gemelli dice al collega: «Senti, Necchi, domattina quando ti alzi vieni a svegliarmi. Sono curioso di vedere cosa vai a fare. Voglio venire anch’io con te». «Vieni pure», gli risponde Vico.
Il mattino seguente entrano insieme nella cappella dell’ospedale militare, ma Edoardo rimane presso la porta, con le braccia ostentatamente conserte. Un sacerdote celebra, le suore, i chierici, i soldati e Vico si comunicano. Alla fine della messa, i due escono insieme. Gemelli simula freddezza e indifferenza ma dentro di sé ha l’animo in tumulto. Vico non è un frate, è un laico pure lui, è un medico che tra breve si sposerà e avrà una famiglia normale. Non gli manca nulla per godersi la vita, per conquistarsi una buona posizione, un potere personale invidiabile viste le sue ottime doti di leader. Eppure Necchi è più rigido e scrupoloso dei frati! E non riesce nemmeno ad essere antipatico! Sempre sereno, non disprezza mai gli avversari, non perde la calma per tutti i contrattempi di cui è piena la vita militare, sopporta i frequenti scherni dei compagni che deridono il suo bigottismo e arrivano a lanciargli contro le scarpe quando, prima di andare a dormire, s’inginocchia accanto al letto a recitare le preghiere. Dinanzi all’esempio di Vico, Edoardo non può alzare le spalle, non può far finta di niente.
Vico deve avere un segreto, sospetta il giovane Edoardo in crisi. Il segreto è presto scoperto: un contatto continuo con Dio attraverso la preghiera. E in quella preghiera c’è un posto specialissimo per lui, per Edoardo, perché il Signore gli accenda la luce della fede. Gli suggerisce una celebre invocazione, quasi lanciandogli un salvagente che è un grido d’aiuto, quello stesso che fu di Agostino e di Manzoni: «O Dio, se ci sei, manifestati a me!». Nulla di più, per ora, se non quell’invocazione che sembra fatta apposta per il dubbioso Edoardo, tanto è impastata di scetticismo: «Dio, se ci sei…» uno scetticismo che deve diradarsi al calore della Grazia. Vico lo sa, rimane discreto e in trepida attesa. Formato alla scuola di padre Mattiussi, sa che bisogna evitare lo zelo incomposto e la pretesa di farla da maestro verso chi si trova alla ricerca ansiosa della verità. Bisogna disporlo con pazienza e dolcezza ad accogliere l’azione misteriosa di Dio. Tanto più che Vico, nella sua umiltà, rimane sempre prudente e diffidente della propria opera.
Il colpo della Grazia arriva il venerdì santo del 1903. Edoardo cerca il collega e gli rivolge una secca richiesta: «Necchi, accompagnami in chiesa». Vico ha un sussulto al cuore, scruta il volto del compagno socialista e non osa sperare. Acconsente sollecitamente: «Subito. Andiamo ». Solo quando, entrati nella basilica ambrosiana addobbata a lutto per la morte del Signore, Edoardo s’inginocchia con la testa tra le mani, Vico comprende. È caduto l’ultimo diaframma. La commozione profondissima di entrambi, arrivati a quel momento da vicende contrapposte, s’unisce e si mescola per la prima volta in una rara intensità spirituale. Edoardo ritorna al Signore. Vico Lo ringrazia. «Conducimi da un sacerdote» gli chiede Gemelli che stavolta non avanza bruscamente una pretesa ma invoca, sia pur ruvidamente, un aiuto. Vico affida l’amico a don Pini e poi si ritira a ringraziare Dio. Non si vanterà mai di quella conversione. Anzi, non ne parlerà con nessuno, nemmeno con la moglie. A chi gli chiederà quale parte ha avuto nella conversione del medico socialista, Vico si limiterà a rispondere con una frase dal sapore manzoniano: «E stata l’opera della Provvidenza». Ma della Provvidenza Necchi ha saputo essere lo strumento docile e fedele. Fedele come l’amicizia che sapeva dimostrare che alla lunga diventava l’arma vincente.
Al processo diocesano di Milano per la beatificazione di Necchi, monsignor Olgiati ha dichiarato: «è mia convinzione personale che, oltre all’esempio della virtù, abbia esercitato un’influenza decisiva sull’animo del compagno socialista quella che a mio giudizio è la dote caratteristica e quasi direi l’anima ispiratrice del carattere di Necchi: la serenità costante e la tranquillità assoluta che non venivano mai meno in nessuna circostanza, che gli davano un autodominio per me meraviglioso e che gli permettevano di dominare gli altri con questa virile dolcezza». Il focoso Edoardo fu vinto dalla tranquilla e costante serenità di Vico; il veemente dal mite.
All’alba, ora, Vico trova Edoardo sgattaiolare con lui verso la cappella dell’ospedale per ricevere l’Eucaristia. Quando il servizio impedisce l’incontro mattutino con Dio, restano a digiuno fino a mezzogiorno per andarsi a comunicare in Sant’Ambrogio. Spesso l’ora di libertà si trasforma in un’ora di adorazione al Santissimo Sacramento: «Come ci si sente rinfrancati» esclamano al termine, i due amici nel ritornare alle loro incombenze ospedaliere.
Questi fatti sono avvenuti qui, proprio in questa Cappella! Quando nel novembre del 1932, esattamente ottanta anni fa, si concluse l’opera di adattamento di questi locali da ospedalieri ad universitari, Gemelli volle che questa stanza, adibita un tempo a laboratorio scientifico e a farmacia, divenisse una Cappella intitolata a San Francesco, patrono del suo Ordine. In particolare la volle dedicare a Necchi, terziario francescano, e alle virtù francescane da lui esemplarmente testimoniate. La prima testimone del suo essere terziario francescano fu proprio sua moglie Vittoria, che nella deposizione al processo canonico sulla difesa delle virtù, afferma: “il Servo di Dio aveva una particolare devozione a San Francesco d’Assisi e lo nominava spesso anche nei suoi discorsi. Prima ancora che si sposasse era iscritto al terz’Ordine portandone il cingolo e gli abiti, intervenendo, se appena gli era possibile alle conferenze francescane ogni mese tenute nel convento dei Minori in via Maroncelli, recitando ogni giorno le preghiere prescritte e soprattutto cercando di imitare lo spirito di San Francesco. A questo proposito ricordo che quando era in casa non voleva nulla di quello che significasse lusso accontentandosi anche nell’arredamento della casa di quella semplicità che era consentita dal suo stato.
Teneva in particolare evidenza il quadro di San Francesco, ed anche nel visitare certi ammalati inculcava lo spirito francescano tanto che qualcuno dei suoi assistiti sapendo di fargli cosa gradita gli regalava qualche quadro di San Francesco”.
Gemelli volle scrivere le motivazioni della costruzione di tale cappella su due lapidi che, grazie al recente restauro, sono tornate all’antico splendore.
Al visitatore, oggi come allora, basta leggerle per capire il profondo mistero di grazia che questa Cappella conserva gelosamente e che ora, riportata all’antico splendore, può toccare ancora il cuore di coloro che accolgono con docilità il lieto annunzio della salvezza. Qui, oggi come allora, possono avvenire ancora conversioni, cambi radicali di mentalità; qui si può ancora riscoprire il senso vero della nascita di questa Università; qui, per intercessione di San Francesco, si può ritornare al gusto della semplicità di vita e del silenzioso ed umile servizio per il bene del prossimo.
* Assistente ecclesiastico generale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore