La carriera di apprezzata scrittrice per bambini (oggi pubblica con Piemme, Il Battello a vapore) di Roberta Grazzani nasce tra le mura del nostro ateneo sotto la guida di Giancarlo Brasca che in maniera inaspettata scoprì il suo talento, incoraggiandola. Dello storico direttore amministrativo dell’Università Cattolica, fu segretaria nella prima giovinezza. Poi, dal 1972 al 1996 ha diretto il mensile per bambini “Giovani Amici” dell’Università Cattolica. Nel 1996, insieme a Dino Boffo, ha fondato “Popotus”, inserto per bambini del quotidiano “Avvenire”, e rifondato “Giovani Amici” con il nome di “Ciao Amici”. Nel libro “Giancarlo Brasca. Lettere per una ragazza” (Vita e Pensiero) ha deciso di raccogliere alcune lettere personali raccontando la sua storia di ventenne alle prese con il primo lavoro in un ambiente particolare come l’Università Cattolica.
«Ho tenuto presso di me per troppo tempo queste lettere, per un misto di timidezza e inadeguatezza - ci dice rispondendo alla domanda sul perché ha deciso di rendere pubblici i suoi ricordi - . Mi pareva che sarebbe stato difficile incastonarle in una presentazione che le meritasse e desse loro il giusto valore. Inoltre, considerata la fitta rete di rapporti che Giancarlo Brasca (nella foto in basso con l'allora cardinale di Cracovia Karol Wojtyla) aveva tessuto con tante persone, il mio contributo mi sembrava minimo, una piccola goccia. Ma a un tratto non mi sono più sentita di tenere chiuso in un cassetto il messaggio che le lettere contengono».
Ma c’è un motivo in più, spiega la scrittrice. «Considero difficile e critico il momento che tutti, ma specialmente i giovani, stiamo vivendo. Sono rarissime le voci di speranza e le testimonianze che additino un percorso per il nostro spirito. Così, alla voce solitaria di papa Francesco, che da mesi incita e scuote le coscienze, può fare eco ora la voce, solo apparentemente lontana, di un laico cristiano quale è stato Giancarlo Brasca».
«Signorina… lei scrive?»: fu questa la domanda inaspettata che ha segnato il suo destino di adulta? Fin da piccolissima avevo deciso che avrei scritto storie, e le scrivevo. E la domanda del dottor Brasca tanto inaspettata, quanto decisiva per il mio futuro, non fece che aumentare quel senso di stupore che stava nascendo in me in quel periodo. Vedevo, infatti, che si stava realizzando tutto secondo quei desideri che ancora non avevo svelato ad anima viva. La domanda di Brasca, seguita poi nel tempo dai suoi concreti interventi e dalla sua generosità, segnò davvero, in modo provvidenziale, il mio destino di scrittrice.
Le diede consigli sul tipo di libri da scrivere? Ero un’accanita lettrice: leggevo qualsiasi cosa mi capitasse fra le mani. A undici anni avevo già letto buona parte delle Novelle per un anno di Pirandello e in seguito divorai tutto il leggibile di autori come Hemingway, Stevenson, Cronin, Daphne du Maurier, Marshall, Bernanos, per citarne alcuni. Ma non avevo un metodo. E Brasca me lo indicò senza parlarmene esplicitamente, invitandomi ad approfondire le mie letture partendo dalla conoscenza della personalità degli autori, dello stile, del ritmo di scrittura e del messaggio che trasmettevano. Non mi diede mai consigli sul tipo di libri da scrivere, solo mi disse una volta, dopo la lettura di un mio racconto senza lieto fine: «Non si può. Non dobbiamo far piangere i bambini». Ho seguito il suggerimento.
Giancarlo Brasca ha fatto della sua vita una preziosa testimonianza cristiana e dalle sue pagine traspare la delicatezza e insieme la rudezza del suo carattere. Iperbolicamente lei cita “Il diavolo veste Prada” paragonando il suo stato d’ansia a quello delle ragazze che nel film lavorano per la tremenda direttrice di Vogue. Ambienti molto differenti: c’era davvero questo lato terribile? Quando vidi quel film mi riconobbi nell’ansia della corsa con il tempo delle ragazze protagoniste e ritrovai nella memoria i momenti pieni di tensione che costellavano le nostre giornate. Ma il paragone non è possibile. Per il dottor Brasca, che arrivava affannato dal rettorato - pieno di documenti, promemoria, appunti - dopo il quotidiano incontro con padre Gemelli, i lavori erano davvero tutti “urgenti”. Non c’era tempo per fermarsi o rallentare. Brasca, segretario di amministrazione, ereditava lo stile dei pionieri, che era quello di Gemelli e Armida Barelli. Era solo, con pochissimi aiuti, a gestire e svolgere un lavoro immenso, pieno di ostacoli e contrasti. «Siamo oppressi da una incredibile varietà di guai…» lui stesso scriveva. Ma tutto questo non fa che rendere più chiara la sua coerenza di laico cristiano, “uomo tra gli uomini”, che non esitava a spendere le sue energie per gli altri, in mezzo alle ansie e alle fatiche delle sue giornate difficili.
Tra l’altro una sua lamentela per il lavoro troppo frenetico fu l’occasione per la nascita di un dialogo su Dio: come accadde? In una delle mie prime lettere, gli scrissi lamentandomi della continua tensione in cui eravamo costretti a lavorare. Ecco in sintesi la sua risposta. «Lei ha ragione… dobbiamo sforzarci ogni giorno di giungere a un ritmo più umano e cristiano. Ma il mezzo vero, efficace, è interiore: è l’umiltà di accettare gli errori, è lo sforzo paziente di migliorare. È la fiducia in Dio che governa tutto e può riparare anche i nostri errori. Se noi ci sforziamo, in fede, speranza e amore di far questo, il Signore può essere contento; anche il turbinio esterno tende a placarsi e, almeno all’interno, tutto è calmo».
Lei dice spesso che l’Università Cattolica è un posto speciale, perché? La Cattolica non è come gli altri posti di lavoro. Si sente che c’è un carisma. Io l’ho sentito in modo chiaro, inequivocabile, perché - costretta a lavorare a Milano a soli quattordici anni, in un ufficio lontano dai luoghi dove ero cresciuta, fra gente che non si curava del mio disagio - giunsi in Università da un mondo totalmente diverso. Forse le persone che oggi arrivano qui non si rendono subito conto di questo ed è un peccato.
Cosa dovrebbero fare? Basterebbe che ai nuovi assunti venisse data la possibilità di conoscere le origini non lontane e le vicende di questo luogo che - malgrado i cambiamenti avvenuti nel tempo - continua a essere speciale. Ci sono state persone che, perché la Cattolica nascesse e fiorisse, le hanno dedicato senza riserve la vita intera. Basterebbero quattro nomi: padre Agostino Gemelli, Armida Barelli, monsignor Francesco Olgiati (che amava i gatti e si faceva chiamare don Micio), Vico Necchi, per aprire il sipario e far uscire e rivivere la storia, con le sue molteplici e sorprendenti sfaccettature. Allora, anche le nuove leve capirebbero perché l’Università Cattolica è un posto “speciale”.