Siamo abituati a leggere la Cina dalla crescita del suo Pil, a vederla dalla maestosità dei grattacieli di Pechino, Shanghai e Hong Kong, a rispettarla come seconda economia globale. In realtà, il gigante asiatico è qualcosa di più complesso. I problemi ambientali, le disuguaglianze tra le regioni dell’Est e quelle dell’Ovest, l’unico partito politico che rappresenta la volontà di oltre 1,3 miliardi d’individui, rappresentano nodi da sciogliere prima del sorpasso agli Stati Unti. Una nuova sfida che attende il Dragone da adesso al 2015, anno del 13° piano quinquennale di sviluppo economico e sociale. Un nodo di cui si è parlato il 17 maggio in Università Cattolica a Milano, in occasione del seminario internazionale “China’s new development challanges: internal and external dimensions”. All’incontro promosso da Aseri e Istituto Confucio hanno partecipato esperti di economia cinese e relazioni internazionali.
«Instabile, sbilanciata, scoordinata e insostenibile»: parafrasando le parole del primo ministro cinese Wen Jiabao, Robert F. Ash, professore alla School of Oriental and African Studies (Soas) dell’University of London, ricorda i quattro mali dell’economia cinese. L’instabilità è determinata da un flusso troppo elevato d’investimenti esteri. Nel 2011 hanno superato i 110 miliardi di dollari, concentrati soprattutto nel settore immobiliare. Il rischio è un surriscaldamento dell’economia con conseguente aumento dell’inflazione, che già nei primi mesi del 2012 ha superato la soglia obiettivo del governo fissata al 4%. L’aumento dei prezzi trainato dal rincaro dei generi alimentari (+10,6%), rischia di erodere l’aumento salariare conquistato dai lavoratori, costringendo la banca centrale cinese ad apprezzare il valore del renminbi con conseguenze negative sulle esportazioni. Dalla sala dei bottoni del politburo bisogna considerare le differenze territoriali che il paese deve colmare. Le regioni costiere come Guandong, Shandong, Fujian e la contea di Shanghai, hanno attratto la maggior parte degli investimenti diretti esteri. Un trend in costante aumento dalle riforme di apertura di Deng Xiaoping negli anni ’80, che ha trascurato le zone centrali e occidentali del paese. «Uno sbilanciamento che ha creato profonde divisioni sociali – ha aggiunto Ash – causato anche da una mancanza di coordinamento. Oggi l’economia cinese è prevalentemente esportatrice e quindi legata al ciclo globale. Uno sviluppo interno basato sui consumi domestici è ancora lontano». Un ruolo quasi obbligato quello di 'Fabbrica del mondo' secondo Giuseppe Gabusi, docente di relazioni internazionali dell'Asia orientale dell’ateneo, una responsabilità pesante soprattutto nei confronti dell’ambiente che rende la crescita un obiettivo insostenibile. «Basta pensare ai disastri ecologici, all’inquinamento da carbone e alla sete di energia» conclude Ash.
«Dal punto di vista finanziario, la Cina deve liberarsi dalla trappola del dollaro», spiega il professor Gabusi soffermandosi sulle riserve valutarie del gigante asiatico che sono più di 3 trilioni di dollari, il 70% circa in valuta americana. Un’assenza di diversificazione che espone le riserve a una perdita di valore dovuta alla svalutazione della moneta statunitense. «Per essere l’economia leader mondiale, la Cina deve avviare un processo di redistribuzione del reddito, stimolare la domanda interna grazie a un aumento dei salari e convertire il suo modello industriale da manifatturiero a hi-tech e servizi»: per Jonathan Fenby, giornalista e autore del libro overview sulla Cina Tiger Head, Snake Tails, il Dragone non ha tempo da perdere se vuole rispettare il suo 12° piano quinquennale. Un ambizioso obiettivo che pone al centro la qualità rispetto alla quantità entro il 2015. In effetti, il governo sta ponendo le basi per affermare il paese come futura potenza egemonica. In Africa collabora con le repubbliche del continente per aggiudicarsi lo sfruttamento di risorse preziose, come il rame. In Medio Oriente, stringe rapporti contestati dalla comunità internazionale con l’Iran, per l’approvvigionamento di petrolio. In Sud America, oltre alle materie prime, stabilisce in Brasile impianti produttivi per le automobili Chery, entrando così in competizione con Fiat e Volkswagen. Infine, in Europa visto il perdurare della crisi fa shopping di tecnologie mediche e telecomunicazioni.
«È impossibile immaginare un’economia basata sui consumi interni, senza che ci sia una pluralità politica»; per Vittorio Emanuele Parsi, docente di relazioni internazionali della Cattolica, il partito unico non è in grado di guidare e di rappresentare la Cina, la sua popolazione e i suoi singoli interessi nel mercato globale, fino al raggiungimento della vetta. «Sarebbe un conflitto d’interessi», che annienterebbe il cambiamento e il pluralismo. Conclusione: «La Cina non potrà mai essere il paese numero uno con questi problemi».