Può essere considerato un nuovo genere cinematografico, anche se nasce in stretto contatto con il mondo della moda. Il fashion film è un cortometraggio a metà tra la narrazione cinematografica classica e l'esaltazione di un marchio tipica degli spot pubblicitari. Luca Guadagnino si è cimentato più volte in questo tipo di lavori, sempre più apprezzato da committenti e pubblico. Ospite del convegno Fashion Movies, promosso il 14 maggio in largo Gemelli a Milano, il regista ha spiegato il significato e l'essenza dei fashion film attraverso le sue esperienze, svelando segreti e retroscena da dietro le quinte.
Qual è la differenza tra i fashion film e gli spot?
Il cinema di moda è un modo di andare indietro nel futuro, una specie di Carosello. Perché è cambiata la coscienza che gli spettatori hanno dei brand di moda. Non c'è più un semplice obiettivo consumistico di breve periodo ma, perdonate il termine, un'«autobrandizzazione»: "Io sono Prada" e non più "io ho Prada", tanto per fare un esempio. La differenza sostanziale è tutta qui: il consumatore è cambiato e, con lui, i vari elementi pratici come la durata, il budget e la produzione.
Lo spot ha fatto il suo tempo?
È quasi sempre qualcosa di astratto. Anche i lavori di grandi registi del passato, come per esempio "1984" di Ridley Scott per la Apple, non sono assimilabili all'idea di fashion film di oggi. L'idea è raccontare la moda, o meglio, l'essenza di un brand. In più, oggi una programmazione per il web può essere molto più efficace degli spot in televisione. Puoi raggiungere anche due milioni di persone che hanno voluto vedere quella cosa lì. Numeri che in televisione non ci sono perché anche in presenza di grandi numeri è raro un interesse attivo da parte dello spettatore.
È un lavoro creativo e di sceneggiatura che si avvicina più al cinema o alla pubblicità?
Per realizzare "A Therapy", il miglior film di moda mai realizzato, ci sono voluti un maestro della regia come Roman Polanski e due premi Oscar come Ben Kingsley ed Helena Bonham Carter. È un modo di rendere invisibile il marchio per essere in realtà totalizzante per chi guarda il prodotto perché tutti ricorderanno il film di Prada con lo psicanalista. Stessa cosa avviene in "Secret Garden" di Inez Van Lamsweerde e Vinoodh Matadin, realizzato per Dior, nel quale il marchio, immerso nella cornice di Versailles, incarna la quintessenza dell'eleganza francese abbinata alla modernità sul sottofondo dei Depeche Mode.
Quindi anche tra attori veri e modelli prestati ai film c'è una grande differenza?
I protagonisti di questi film sono funzioni del desiderio. Lavorare coi modelli, come mi è capitato per Armani, è sempre piacevole perché sono pronti a qualsiasi cosa senza lamentarsi, mentre gli attori, anche nelle condizioni più favorevoli e agiate, troveranno sempre qualcosa di cui lamentarsi. Una modella con cui ho lavorato in un film per Sergio Rossi, che ormai ha 33 anni, un'età molto avanzata per la sua professione, ha portato nel film qualcosa di molto legato a lei come persona, oltre il suo essere modella. È stata molto brava e sono felice di quello che è riuscita a dare. La farei lavorare molto volentieri in un mio film.
C'è sempre stato comunque un legame tra cinema e moda.
Il cinema ha sempre sfruttato la moda per la sua caratteristica iconografica e l'esempio ormai classico è Audrey Hepburn con Givenchy. Per riuscire a farlo contano molto la cultura, la conoscenza, la curiosità. Però può anche succedere che venga costruita un'iconografia molto potente e bella anche a prescindere da questi bagagli culturali. La cosa peggiore sarebbe scimmiottare la naturalezza della capacità di costruire iconografia.
E cioè?
Penso all'attrice Tippi Hedren in un film di Hitchcock e a chi potrebbe confondere quella naturalezza col cinismo di chi studia a tavolino, come per esempio il giubbotto del film Drive di Nicolas Winding Refn. Tippi Hedren risponde alla necessità di costruire un'immagine, anche perché sono certo che Hitchcock non pensava di creare il modello hitchcockiano. Il giubbino di Drive sembra più la creazione di un copywriter che cerca qualcosa che possa funzionare. Questa è la differenza tra l'infiltrazione dell'elemento di marketing e un immaginario fecondo e creativo.
Bisogna quindi evitare l'effetto vetrina.
Io sono un vecchio cinefilo e ho un certo tipo di passioni. Per esempio il cinema di Hitchcock e come lui lavorava con un grande costumista come Gilbert Adrian. Quel tipo di utilizzo del codice del costume non era "brandizzante" ma era profondamente cinematografico. Bisogna non farsi risucchiare dal brand come per esempio avviene nel recente remake del film "Il grande Gatsby". Questo film è l'apocalisse della "brandizzazione del cinema". Il vampirismo dei marchi sul film trasforma l'oggetto di cinema, che dovrebbe essere il film, in una gigantesca vetrina, come quelle gigantesche dei Department Store di New York.