di Roberto Cauda *
Dalle pagine dei giornali è stato rilanciato nei giorni scorsi un nuovo allarme “suina”, con la segnalazione di due decessi uno ad Aosta e uno a Lecce. Va detto che il ministero della Salute con una nota ha precisato che si tratta di 50 persone in terapia intensiva su milioni di casi, numeri che rientrano nelle normali statistiche.
La cosa curiosa riguardo all’influenza di quest’anno è che i giornali non la chiamano più H1N1, come per molti anni hanno fatto, ma la indicano come suina come era stato fatto all’inizio dell’epidemia generando non poche polemiche relativamente al danno potenziale all’industria alimentare.
Prima di esprimere alcune considerazioni, voglio fare una premessa: è sempre molto difficile poter interpretare gli sviluppi delle malattie infettive contagiose qual è l’influenza: basti ricordare che nel 2009 si temeva la devastante pandemia che poi, fortunatamente, si è rilevata molto meno grave del previsto. Dal 2009 ad oggi, continua a circolare il virus H1N1 che è il virus pandemico, insieme all’H3N2 e il primo si è sempre dimostrato fino ad ora più benigno rispetto all’altro. I casi gravi occorsi in quegli anni negli Usa erano dovuti all’H3N2 e la relativa benignità dell’influenza in Italia era ascrivibile all’H1N1.
Detto questo, ecco alcuni spunti di riflessione per ridimensionare l’allarme lanciato:
- Questi casi gravi segnalati rientrano comunque nelle normali statistiche, dal momento che ogni stagione influenzale si contraddistingue per un numero di decessi che è stimabile in Italia attorno a circa 8.000. Se uno si focalizza solo su questi eventi certamente drammatici, c’è il rischio di ripetere pur in altri contesti, l’errore di novembre scorso quando venivano erroneamente attribuiti alla vaccinazione decessi che avevano poco o nulla a che fare con questa, se non perché avvenivano in ordine cronologico dopo di questa.
- È indubbio che c’è stata una riduzione quantizzabile intorno al 20-30% di vaccinazione anti influenzale dovuto all’allarme scatenato dai supposti effetti collaterali della vaccinazione che si stima porterà a un numero significativamente più alto che negli anni passati di contagiati. Va da sé che allargando la base dei soggetti suscettibili, in quanto non vaccinati, si aumenterà necessariamente il numero degli infetti e di conseguenza dei casi gravi e dei decessi. I dati di cui noi disponiamo oggi, ricavabili dal sito INFLUNET, ci indicano che siamo all’inizio della stagione influenzale ed è quindi impossibile fare delle previsioni. Confrontando la crescita della curva dei casi 2014-15 a oggi non c’è stata nessuna differenza rispetto agli anni passati (vedi la figura in alto), ma ripeto è troppo presto per trarre conclusioni, in quanto la curva è destinata a crescere nel giro di alcune settimane. Solo allora potremmo vedere se e quanto la mancata vaccinazione avrà influito sul numero di casi.
- Sempre nel sito INFLUNET, ma in genere a stagione influenzale terminata, è possibile, attraverso i laboratori di virologia sentinella nel territorio nazionale, ricavare il tipo di virus che circola. Negli anni passati era prevalentemente il virus pandemico H1N1 e, in quota minoritaria, l’H3N2. Per ora i dati virologici iniziali relativi all'attuale stagione influenzale indicano una prevalente circolazione del ceppo pandemico H1N1 (70%) su H3N2 esattamente come negli anni passati.
Sarà anche interessante studiare se in questi anni il virus sia andato incontro a delle mutazioni che potrebbero aver aumentato la sua aggressività anche se al momento non vi è alcuna indicazione che questo si sia verificato, Questo si era verificato per la pandemia Asiatica del ’56 che nel primo anno era stata meno grave di quanto non lo sia stata negli anni successivi fino al 1958.
L’attuale vaccino comprende il ceppo H1N1, attualmente in circolazione oltre l’H3N2 e un ceppo B, e quindi la vaccinazione è in grado di conferire una protezione intorno al 70-80% a chi si sottoponga ad essa. A questo proposito c’è stata nei giorni scorsi una chiamata finale a sottoporsi alla vaccinazione, anche se personalmente ritengo che sia forse troppo tardi dal momento che il picco della malattia dovrebbe avvenire prima che siano prodotti gli anticorpi.
* direttore dell’Istituto di Clinica delle Malattie infettive dell’Università Cattolica-Policlinico A. Gemelli di Roma