Probabilmente nessuno sceglierebbe un asino come emblema della creatività: “la figura dell’asino a volte l’abbiamo rappresentata con l’apatia degli stolti, talvolta con il desiderio impudico e sfrenato” (Gregorio Magno, Moralia in Job, 1,23). Eppure… Anche in questo la narrazione biblica è sorprendente. Proprio un’asina vede ciò che l’uomo non sa vedere. La storia è semplice e gustosa (cfr. Nm 22-24). Il re di Moab, Balak, figlio di Zippor, intimorito dallo spiegamento di forze degli Israeliti («Ora questa moltitudine divorerà quanto è intorno a noi, come il bue divora l’erba dei campi») fa appello insistente a Balaam, un indovino, perché scagli su Israele la sua maledizione. Alla fine, il vate accetta, sale in groppa alla sua asina e si mette in viaggio. Ma per tre volte l’asina si rifiuta di proseguire (prima sviando verso i campi, poi lungo il muro del sentiero e infine fermandosi decisamente), suscitando l’irata reazione di Balaam. L’asina vede ciò che l’indovino non vede: l’angelo del Signore che, con la spada sguainata, sbarra il cammino. Allora il Signore apre la bocca dell’asina: «Perché mi percuoti? Non vedi anche tu ciò che vedo io?».
Finalmente anche Balaam vede l’angelo e sente il suo rimprovero: «Perché hai percosso la tua asina già tre volte? Ecco io sono uscito ad ostacolarti il cammino… L’asina mi ha visto ed è uscita di strada davanti a me; se non l’avesse fatto, certo io avrei già ucciso te e lasciato in vita lei» (cfr. Nm 22,32-33). Balaam si inginocchia, chiede perdono; e la maledizione si trasforma in benedizione. È il brano che abbiamo ascoltato come prima lettura.
La creatività dell'uomo é legata, nella visione biblica, alla benedizione divina (Gn 1,28): da essa trae la sua valenza liberatrice e promotrice. Fin dal momento della creazione la benedizione inserisce un dinamismo e una orientazione che trovano nella parola di Dio l'indicazione progettuale, e nella sua azione la forza propulsiva di realizzazione: l'agire dell'uomo é creativo in quanto connesso costitutivamente e dinamicamente con l'azione creatrice di Dio; da questo stretto legame riceve vocazione e forza salvifiche. La prospettiva si arricchisce nel filone sapienziale sia nella riflessione del giudaismo antico (Prov 8,12-14.22-31), sia in quella più recente della diaspora (Sap 8,3-6; 7,21). Coltivare la sapienza significa conoscere il cosmo e godere saggiamente dei suoi beni. È solo per il dono della sapienza che l'uomo può esprimersi creativamente: la sapienza "che é operatrice di ogni cosa, lo ha istruito e gli ha fatto conoscere la struttura del mondo, le proprietà degli elementi, ecc."[1] (cf. Sap 7,12-21; 1Re 3,10-14; Sap 9,1-4; 1Re 3,6). Su questa via, l’uomo è ricondotto all’originario: "Il Signore Dio prese l'uomo e lo pose nel giardino di Eden perché lo coltivasse e lo custodisse" (Gn 2,15). Coltivare e custodire il giardino non è una condanna, come nelle culture coeve, ma, piuttosto, una possibilità di sviluppo offerta all'uomo: Dio stesso si fa agricoltore (2,8-9) e ama passeggiare nel giardino (3,8). Del tutto fuori luogo, quindi, affermare che "la Bibbia non indica mai il lavoro dell'uomo come creativo, anzi, si scaglia persino in qualche maniera contro il lavoro di creazione... Così non si é mai considerato il lavoro come partecipazione all'attività creatrice di Dio"[2].
Si comprende molto bene perché, in questa visione delle cose, la Bibbia condanni ripetutamente la pigrizia. Certo, per l'uomo decaduto l'attività é motivo di fatica – labor -, ma anche di gioia. Un godimento che tuttavia rimane precario fin quando non si apre all'orizzonte più ampio e compiuto del suo inveramento escatologico. La benedizione messianica sostanzia di creatività l’agire storico dell’uomo. Questa assunzione creatrice dà senso alla vicenda umana secondo una progettualità dinamica: i suoi contenuti non sono pre-scritti, ma consegnati all’invenzione dell'uomo, che li scopre nel confronto tra l'ideale creativo divino e le concrete condizioni storiche. Il progresso delle scienze, mentre scopre in maniera sempre più approfondita le leggi che regolano l’universo e si arricchisce di mirabili scoperte, si trova pericolosamente esposto – nella sua rivendicazione di autonomia - a quella insignificanza che estenua ogni creatività: "quanto più l'universo ci appare comprensibile, tanto più ci appare senza scopo"[3]. La presuntuosa sicurezza ottunde lo slancio creativo, cadenza i passi monotoni della ripetizione pedissequa. Balaam non si interroga, reagisce con la sicumera di chi già conosce. Il suo occhio è fisso agli zoccoli dell’asina, non si leva a guardare oltre. È la posizione ripiegata degli oppositori di Gesù, che l’intelligenza dialettica del Maestro mette subito a tacere. Anche la creatività autentica, come la profezia, espone a rischio, incontra opposizione e rifiuto, soprattutto da parte di chi – impari per dotazione intellettuale – difende la propria posizione di privilegio e/o di potere. O semplicemente si fa discepolo di quella ragion pigra – ignava ratio – la cui cattedra non è mai vacante. Contraddice la creatività la tentazione di abbandonare il campo: "Ho peccato perchè non sapevo... se questo è male ai tuoi occhi, me ne tornerò indietro.." (ver.34), si scusa Balaam. Ma non è questo il pensiero di Dio. È l’intento che Balaam deve cambiare, non l’itinerario. Non c’è futuro per chi, posto mano all’aratro, si volge indietro. Non c’è avvenire per la ragion pigra. La creatività fiorisce nell’orizzonte di una visione consistente, aperta e chiara ad un tempo, in cui la verità dispiega la sua illuminazione generatrice: «Dio partecipa alla creatura qualcosa della sua energia creatrice anche nell’ambito della verità. Se l’uomo possedesse solo una funzione conoscitiva misurata dalla verità delle cose, egli sarebbe, sotto questo profilo, non più causa ma semplicemente effetto. La sua collaborazione si ridurrebbe alla funzione unicamente riproduttiva di verità già esistente. Verrebbe certo arricchito dall’intuizione di quanto lo circonda, ma non avrebbe nella sua conoscenza nessuna possibilità di incidere formativamente nella verità delle cose stesse. Possederebbe la forza della causa seconda solo come agente pratico e non anche, alla stregua di Dio, come soggetto conoscitivo» (H.U. von Balthasar, Verità del mondo, Teologica 1, Milano 1989, 121).
Ciò incide direttamente sull’idea – sulla realtà – dell’Università: «Deve essere riguadagnata l’idea di una formazione integrale, basata sull’unità della conoscenza radicata nella verità. Ciò può contrastare la tendenza, così evidente nella società contemporanea, verso la frammentazione del sapere. Con la massiccia crescita dell’informazione e della tecnologia nasce la tentazione di separare la ragione dalla ricerca della verità. La ragione però, una volta separata dal fondamentale orientamento umano verso la verità, comincia a perdere la propria direzione. Essa finisce per inaridire o sotto la parvenza di modestia, quando si accontenta di ciò che è puramente parziale o provvisorio, oppure sotto l’apparenza di certezza, quando impone la resa alle richieste di quanti danno in maniera indiscriminata uguale valore praticamente a tutto. Il relativismo che ne deriva genera un camuffamento, dietro cui possono nascondersi nuove minacce all'autonomia delle istituzioni accademiche» (Benedetto XVI, Incontro con il mondo accademico nel castello di Praga, 27.09.2009).
La capacità di innovazione che caratterizza e alimenta lo slancio creativo non può essere ristretta entro il perimetro angusto della ragione calcolante. Se è vero, come è vero, che la scienza moderna non è contemplazione ma ricerca e in essa domina l’approccio tecnopratico, la visione cristiana dilata la prospettiva e lancia alla capacità creativa dell’ingegno umano la sfida del significato totale degli esiti di tale ricerca: «Per questo la carità e la verità ci pongono davanti a un impegno inedito e creativo, certamente molto vasto e complesso. Si tratta di dilatare la ragione e di renderla capace di conoscere e di orientare queste imponenti nuove dinamiche, animandole nella prospettiva di quella « civiltà dell'amore » il cui seme Dio ha posto in ogni popolo, in ogni cultura» (CiV 33). Nucleo generatore e punto elastico di tale dinamismo è il mysterion dell’incarnazione, per il quale nessun frammento di ciò che è autenticamente umano regredisce nell’insignificanza: «Mirabile mysterium declaratur hodie: innovantur naturæ…», recita l’antifona al Benedictus dell’ottava di Natale. La testimonianza patristica è in proposito ricca e sorprendente: l’Epistola a Diogneto parla infatti del Logos «che nasce sempre giovane nel cuore dei santi» (11,2; S. Ch., 33, p. 81); l’amico carissimo di San Basilio, Anfilochio d’Iconio, nella sua omelia per Natale: «Bisognava che il Verbo di Dio, infinitamente sublime, si piegasse verso di noi sino a prender carne, per ringiovanire con la sua Incarnazione quelli che egli aveva creato con la sua divinità incorporea e che il peccato aveva invecchiato, per renderli incorruttibili divenendo simile a loro nella corruzione» (A. H.., 4, 34, 1; P.G., 7, 1083); «Canta il Bambino neonato che ha rallegrato Betleem, ci dice anche Sant’Efrem; canta il Bambino che ha ringiovanito l’intera natura umana» (Sermone 2 per Natale; Opera Omnia, p. 402; cfr. Sermone 3, p. 406. Sermone 12, p. 431); San Leone: «Con la sua nascita il Verbo ha tratto il genere umano dalla sua vetusta senilità per dargli un ricominciamento» (Sermone 5, 5. Vedi anche Sermone 1, 3; 7, 2); Clemente Alessandrino: «E noi siamo sempre giovani, sempre bambini, sempre nuovi. Potrebbero non essere nuovi quelli che partecipano del nuovo Verbo?... Il pargolo di cui parla Isaia (ci è nato un pargolo) è colui a immagine del quale anche noi siamo bambini» (Pedag. 1, 5; P. G., 8, 273, 280); Fausto di Riez: «La divinità del Cristo restaura in qualche modo in mezzo a noi la bellezza del mondo nelle sue remote origini, allorché Adamo veniva plasmato col fango della terra. Ecco infatti che oggi il secondo Adamo è formato dalla carne d’una Vergine, come da una terra non lavorata. Ecco che, non avendo più corso le leggi della natura, la sola azione di Dio fa sorgere nella sua perfezione l’Uomo nuovo destinato a una vita nuova. (Sermone 119 (in Nativ. Domini, 3) in appendice ai Sermoni di S. Agostino; P. L., 39, 1983)».
Tutto questo esalta la conoscenza, rinnova il pensiero; ma non avviene senza la coltivazione diuturna delle virtù morali di limpidezza, autenticità, umiltà: «Lo sviluppo è impossibile senza uomini retti, senza operatori economici e uomini politici che vivano fortemente nelle loro coscienze l'appello del bene comune» (71). La creatività non si confonde, quindi, con lo sbrigliato sensazionalismo del prurito di novità, o con l’accodarsi mimetico alla moda del momento in cui il novum è soltanto la maschera deforme di una sterilità intellettuale che sa generare solo ombre. Creatività è la capacità di guardare oltre, di andare oltre: «Radicato nella prospettiva della verità, l’umanesimo cristiano implica innanzitutto l’apertura al Trascendente. È qui la verità e la grandezza dell’uomo, l’unica creatura del mondo visibile capace di prendere coscienza di sé, riconoscendosi avvolta da quel Mistero supremo a cui la ragione e la fede insieme danno il nome di Dio. Occorre un umanesimo in cui l’orizzonte della scienza e quello della fede non appaiano più in conflitto. Non ci si può tuttavia accontentare di un riavvicinamento ambiguo, come quello favorito da una cultura che dubiti delle stesse capacità veritative della ragione. Si rischia, per questa strada, l’equivoco di una fede ridotta al sentimento, all’emozione, all’arte, una fede insomma privata di ogni fondamento critico. Ma non sarebbe, questa, la fede cristiana, che esige invece una ragionevole e responsabile adesione a quanto Dio ha rivelato in Cristo. La fede non germoglia sulle ceneri della ragione!» (Giovanni Paolo II, 9 settembre 2000, n.4).
Creatività significa il coraggio intellettuale e morale di porre la questione decisiva, in timore et tremore: «Quando l'uomo non elude la domanda, ma procede, con coraggio e trepidazione, sulla via della ricerca, due forti tensioni si agitano dentro di lui. Da un lato, l'esperienza di una carenza, di una inconclusione, di uno smarrimento, quasi, di fronte alla immensità dell’Assoluto e alla fragilità della condizione umana storica; dall'altro, la percezione di una presenza, di una porta che invita ad aprire, di una attesa di riscatto, di una vocazione a proseguire senza indugio. L'intreccio di queste due esperienze dice che l'uomo non si accontenta della conoscenza "positiva", ma vuole vedere al di là: una tensione innata, e tuttavia irretita dalla paura di avventurarsi in mare aperto ("fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza", Dante Inferno XXVI). Oltre la superficie, come recitano questi versi – intensi di sofferta speranza – di Ludwig Wittgenstein: «Io so che il mondo esiste. Che io sono in esso, come il mio occhio nella propria orbita. So che in esso c'è qualcosa di problematico, che noi chiamiamo 'senso'. Che questo senso non si trova in esso, ma fuori di esso... Credere in Dio significa vedere che non tutto si può restringere alla realtà del mondo visibile. Credere in Dio significa vedere che la vita ha un senso».[4] (Saluto del Card. Angelo Bagnasco al Convegno “Dio Oggi. Con Lui o senza di Lui cambia tutto” 10 dicembre 2009).
La creatività autentica cammina sulla via della bellezza, come ha ricordato il Papa nel recente incontro con gli artisti: «Il teologo Hans Urs von Balthasar apre la sua grande opera intitolata Gloria. Un’estetica teologica con queste suggestive espressioni: "La nostra parola iniziale si chiama bellezza. La bellezza è l’ultima parola che l’intelletto pensante può osare di pronunciare, perché essa non fa altro che incoronare, quale aureola di splendore inafferrabile, il duplice astro del vero e del bene e il loro indissolubile rapporto". Osserva poi: "Essa è la bellezza disinteressata senza la quale il vecchio mondo era incapace di intendersi, ma che ha preso congedo in punta di piedi dal moderno mondo degli interessi, per abbandonarlo alla sua cupidità e alla sua tristezza. Essa è la bellezza che non è più amata e custodita nemmeno dalla religione". E conclude: "Chi, al suo nome, increspa al sorriso le labbra, giudicandola come il ninnolo esotico di un passato borghese, di costui si può essere sicuri che – segretamente o apertamente – non è più capace di pregare e, presto, nemmeno di amare". La via della bellezza ci conduce, dunque, a cogliere il Tutto nel frammento, l’Infinito nel finito, Dio nella storia dell’umanità». È il volto della creazione nuova, il volto di un bimbo che nasce.
*Assistente ecclesiastico generale dell’Università Cattolica
[1] M.GILBERT, Il cosmo secondo il libro della sapienza, in G.DE GENNARO (ed.), Il cosmo nella Bibbia..., 194.
[2] J.BAUER, art. Lavoro, in Id. (ed.), Dizionario di Teologia biblica, Brescia 1965, 718-719.
[3] S.WEINBERG, I primi tre minuti, Milano 1977, 170.
[4] Quaderni 1914-1916, a cura di Amedeo G. Conte, Torino, 1964, p. 174.