«Abbiamo il dovere di guardare il carcere». Queste parole di Piero Calamandrei, rivolte ai parlamentari italiani negli anni della Costituente, sono state ricordate durante il convegno La doppia pena, organizzato ogni anno dall’Università Cattolica. Il tema del dibattito è stato il sistema carcerario italiano, e con esso le condizioni disastrose in cui verte. A fronte di ciò, una domanda: come può uno stato di diritto accettare tutto questo?
Ne hanno discusso Gabrio Forti, preside della Facoltà di Giurisprudenza della sede milanese, Francesco Maisto, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Bologna, Elisabetta Laganà, presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, e Luigi Pagano, vice capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria – Dap. Con loro, i docenti dell’Ateneo Marta Bertolino, Luciano Eusebi, Angelo Giarda e Gianluca Varraso. Perché è importante parlare di carcere? Gabrio Forti si è soffermato a lungo su questa domanda, citando un episodio di Cesare deve morire, l’ultimo film dei fratelli Taviani. «Quando nella scena finale – ha spiegato Forti – la porta della cella si chiude alle spalle di protagonisti, appare evidente la concretezza del vincolo carcerario, e viene spontaneo interrogarsi su cosa sia accaduto prima della reclusione». In altre parole, la visione brutale della prigione getta una luce su tutto l’iter penale precedente, spostando l’attenzione sulla persona e sul suo vissuto. Parlare di carcere vuole dire allora mettersi nei panni dei soggetti più deboli, di chi si trova in stato di detenzione, e immaginarsi una visione del mondo da questa particolare angolazione.
Per tutte queste persone, alla pena decisa dalla Giustizia se ne aggiunge un’altra, dovuta alle pessime condizioni in cui si svolge la reclusione. Il primo a parlare di doppia pena è stato proprio papa Benedetto XVI, nel corso della sua ultima visita ai detenuti di Rebibbia. Il problema fondamentale, com’è noto, è quello del sovraffollamento, che è costato all’Italia una condanna della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per violazione del divieto di tortura. Nelle carceri italiane ci sono 40mila posti letto disponibili, a fronte di circa 70mila detenuti: nelle celle si è spesso costretti a restare tutti in piedi, o a trascorrere venti ore al giorno sdraiati sulla propria brandina. Molte di queste persone, però, sarebbero perfettamente in grado di lavorare. «Per legge, i detenuti hanno il diritto di svolgere attività lavorative – sottolinea Marta Bertolino -, ma solo il 20% dei carcerati ne ha la possibilità». C'è poi la questione del trattamento sanitario, spesso carente. Si registrano percentuali altissime di tossicodipendenti e alcolisti, privi delle cure necessarie, e la diffusione delle malattie è molto più elevata della norma. I tumori intestinali, ad esempio, superano di cinque volte la media nazionale.
Francesco Maisto ha allargato il discorso a una misura detentiva alternativa: gli arresti domiciliari. «Il loro incremento negli ultimi anni - ha spiegato - è preoccupante, perché con questo provvedimento non si stimola il condannato a reinserirsi nel contesto sociale, ma lo si condanna a una condizione di immobilità». Si tratterebbe dunque di una misura priva di un fine rieducativo e che riduce il periodo di reclusione a una sorta di limbo. Non solo, è una soluzione che scarica sulla dimensione privata un problema di rilevanza pubblica. In una situazione del genere, una risorsa preziosa è data, ancora una volta, dal volontariato. Elisabetta Laganà lo descrive come «un piccolo esercito di 9mila persone, che quotidianamente varca la soglia delle prigioni italiane». «Il pregio e il difetto del volontario – continua Laganà – è di non avere una specificità professionale. Questo ci permette di essere semplicemente persone che incontrano altre persone, e cercano di riflettere insieme a loro». L’obiettivo è provare a dare un senso all’esperienza carceraria, per ritrovare una dignità che spesso in prigione viene calpestata.