«L’Italia è stata soprattutto frutto di un’espressione letteraria», ha detto Giuseppe Langella, direttore del Centro di Ricerca “Letteratura e Cultura dell’Italia Unita, aprendo la seconda sessione del convegno “Tradizione cristiana, identità culturale e unità italiana”. Un panorama ricchissimo quello della nostra letteratura, che da Dante, Petrarca, Machiavelli, arriva fino agli scrittori del Risorgimento, colmi di amor di patria profuso nelle lettere e nei combattimenti per la libertà. Perfino il nostro inno nazionale fu composto da un giovane di 20 anni, Goffredo Mameli, che perse la vita a causa di una ferita riportata in battaglia. «Liberi non sarem se non siam uni», scriveva Manzoni che metteva in risalto il vero scopo della ricerca dell’Unità d’Italia anche a caro prezzo, come ha spiegato Langella: «L’obiettivo non era l’unità, questa era il mezzo con cui conquistare la libertà». Il professore ha messo in evidenza anche la fiducia incrollabile che gli uomini del Risorgimento ebbero sempre nell’esito positivo del destino dell’Italia, come scriveva Ippolito Nievo: «Io nacqui veneziano […] e morrò per la grazia di Dio italiano».
Combattenti, ribelli e anche maestri di giovani i nostri scrittori del XIX secolo, come Foscolo, che esortava gli italiani alle storie preoccupandosi che «l’italian sapere» non rimanesse lettera morta traducendosi in insegnamento ai giovani. Un punto di vista messo in luce dal professor Enrico Elli, che attraverso lo studio di Cattaneo, De Sanctis e Carducci, ha reso evidente il fil rouge che univa l’idea di nazione non solo alla storia civile ma soprattutto alla costruzione di una storia della letteratura e, nel caso dell’Italia, alla storia della sua lingua.
L’idea di nazione però affonda le sue radici anche nella nostra storia antica, come dimostrato dalle relazioni di Cinzia Bearzot e Giuseppe Zecchini, che hanno preso in analisi rispettivamente l’idea della classicità greca e quella dell’Italia romana, o dall’intervento della professoressa Silvia Lusuardi, incentrato sull’iscrizione ex totius Italiae incisa sulla corona del longobardo Agilulfo. Fino al nostro umanesimo, periodo sul quale si è concentrato il professor Giancarlo Andenna, analizzando gli scritti delle cancellerie del Quattrocento, particolarmente significativi nel restituire il clima, tra alleanze e contrasti, dei ducati, signorie e repubbliche della nostra penisola.
Curioso è il dato che già nell’Italia romana si ravvisa la divisione e la distanza tra il nord e il sud della Penisola, sebbene la percezione fosse naturalmente ben differente da quella risorgimentale. “La conquista del sud”, la cosiddetta piemontizzazione dell’Italia, porta con sé infatti conseguenze non solo politico-economiche ma anche letterarie, come si evince dalla relazione L’identità dei vinti del professor Giuseppe Lupo. «Archetipo di questo discorso - ha detto - è Giovanni Verga, autore di un progetto narrativo che avrebbe dovuto analizzare la società nelle sue stratificazioni economiche dal livello più basso ai vertici (il “ciclo dei vinti”, appunto)» ma l’esemplificazione narrativa dell’Unità passa anche attraverso quel concetto di libertà, già invocato da Manzoni nel Proclama di Rimini, che viene rovesciato nella letteratura post-risorgimentale «fino ad assumere la forma di una “vendetta”». Continua Lupo: «Tale linea ci fornisce una chiave di lettura in controluce della spedizione dei Mille e del movimento unitario e, almeno nella parte iniziale, vede impegnati soprattutto quegli autori che si dispongono in un orizzonte tutto siciliano, da Verga, appunto, al Sorriso dell’ignoto marinaio di Consolo (1976), passando ovviamente attraverso I Vicerè di De Roberto (1894), I vecchi e i giovani di Pirandello (1913), Il Quarantotto di Sciascia (1958) e Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa (1958)».