Sanguigno e delicato, schietto e ironico, Antonio Pennacchi non si è risparmiato nel corso del secondo incontro de “Il cielo nelle stanze”, l’iniziativa promossa dal Policlinico universitario “Agostino Gemelli” e dalle librerie Arion per portare il mondo della scrittura e i suoi protagonisti a contatto diretto con la comunità dei malati e dei loro familiari. Il Premio Strega 2010, vincitore con l’acclamato e discusso romanzo Canale Mussolini, ha risposto puntualmente alle incalzanti domande di Luciano Onder, premiando le attese di un pubblico attento e partecipe.
Proprio ai degenti – a quelli presenti nella hall e a quanti hanno seguito la conversazione dai reparti, grazie al sistema tv a circuito chiuso del Policlinico – Pennacchi ha dedicato i suoi primi pensieri. «Si può essere felici anche quando ammalati. A tutti tocca, prima o poi, e allora ci si rende conto che la vita è bella anche se si sta male». Ciò che importa è sviluppare relazioni solidali con gli altri e riscontrare impegno e sollecitudine in chi ci cura; anche se, come si sa, ciò non sempre avviene nei nostri ospedali. «Per questo è importante che chi studia per diventare medico o infermiere impari che ci vuole amore per il malato: credetemi, molto più della flebo può fare un sorriso!». E ricordando il suo ricovero presso la Cardiochirurgia del Gemelli, nel 2002, lo scrittore ha svelato: «La sera prima di essere operato, quando tutti se ne sono andati, sono sceso alla cappella del secondo piano a pregare la Madonna. Ormai ne sono convinto: l’esistenza è preziosa, va giocata fino in fondo. Abbiamo il dovere di darle un senso, perché non è nostra solamente, né possiamo disporne in modo assoluto».
E la letteratura? Anch’essa ha un enorme valore, «può cambiare le persone in meglio. Ma solo se è buona letteratura». Pennacchi, d’altra parte, ha ben chiaro il suo personale concetto di impegno artistico: «Sto nella tradizione letteraria, ma con i calli sulle mani. Cerco di capire se le verità che trovo nei libri coincidono con le verità della vita reale».
È sempre stato un impulso irrefrenabile, quello per la ricerca di verità e concretezza, che fin da giovanissimo lo ha portato a collocarsi “contro”, per cercare una prospettiva “altra”, il punto di vista diverso. «Fascio-comunista», come è stato chiamato, «anche se fascismo e comunismo, fra loro, non hanno mostrato in fondo tutta questa differenza». Operaio in fabbrica, che però si è dedicato allo studio delle Lettere mentre era in cassa integrazione. Soprattutto, figlio orgoglioso di migranti che dal Veneto sono giunti nell’Agro Pontino, forza lavoro per le grandi bonifiche volute dal duce – quello stesso duce che colpevolmente firmerà poi le leggi razziali e trascinerà l’Italia nella tragedia della Seconda guerra mondiale. E allora si spiega anche l’origine di Canale Mussolini: «Con quest’opera ho pagato il debito che sentivo di avere con la mia famiglia, con i miei morti, che hanno vissuto in un periodo cruciale per il Paese. Ho impiegato 53 anni – tutta la mia vita – per scriverne la storia». Ma se deve dichiarare per cosa va davvero fiero, Pennacchi non ha dubbi e stupisce ancora: «Per i miei figli, che vorrei avere intorno quando sarà la mia ora. Per la casa che ho costruito con mia moglie, fin dalle fondamenta. E per aver salvato la vita di un bambino, vent’anni fa, figlio di un vicino di casa che era rimasto folgorato».
Si conclude così l’incontro con Antonio Pennacchi; e già si aspetta il prossimo, lunedì 20 dicembre alle 16.30, con Bruno Vespa e il suo volume Il cuore e la spada.