«La morte fa parte della vita e la società oggi si deve riappropriare del significato profondo del morire. Anche i medici sono “programmati” per guarire, non per accompagnare il paziente alla morte e la morte del paziente viene spesso vissuta come una sconfitta, se non come un fallimento professionale».
Con queste parole Roberto Bernabei, direttore del Dipartimento di Scienze Geriatriche del Policlinico Gemelli e membro del Consiglio Superiore di Sanità, ha introdotto il seminario di studio Vivere la morte. L’incontro, promosso dall'Associazione Medicina Dialogo Comunione (MDC), si è svolto il 14 giugno presso la Sala del Refettorio a Palazzo San Macuto e ha visto la partecipazione di oltre un centinaio di medici e operatori sanitari che si sono confrontati sul delicato tema dell’assistenza nelle fasi terminali della vita.
Secondo Flavia Caretta, docente della Cattolica e presidente di Medicina Dialogo Comunione «nel fine vita in particolare si è interpellati proprio nell’aspetto più profondo e cruciale dell’arte medica: al di là del sapere scientifico e tecnologico, infatti, la medicina si attua fin dalle sue origini nell’ambito della relazione e della comunicazione».
Alberto Marsilio, medico di medicina generale di Strà (Venezia) ha invece voluto ricordare come l’ospedale ancor oggi è il luogo dove si muore più frequentemente. Se ciò è comprensibile per la malattia acuta, è invece doveroso chiedersi se è un luogo adatto per un paziente affetto da una malattia inguaribile. Il medico di famiglia conosce il paziente e la sua famiglia, ma c’è necessità di un supporto della rete territoriale.
«Quando il malato non è in grado di prendere decisioni per sé – ha ricordato Mariagrazia Arneodo, dell’Opera don Guanella di Roma - il medico si trova a confrontarsi con un suo rappresentante legale, tutore o amministratore di sostegno. Il rapporto a 3 che si instaura rappresenta una sfida ulteriore di umanità e di qualità di ascolto reciproco».
Per lo psicologo Luciano Sandrin, preside dell’Istituto Internazionale di Teologia Pastorale Sanitaria “Camillianum”, parlando delle paure del paziente di fronte ad una morte sempre più tecnologica, ha messo in luce la speranza come variabile importante nell’esperienza del malato e nel percorso della cura, che va diversamente declinata e continuamente rinegoziata.
Le due giovani specializzande Maria Chiara Tuccio (Università di Pisa) e Maria Friso (Università di Roma - Tor Vergata) hanno sottolineato la scarsa considerazione del fine vita nel corso del curriculum di studi in medicina, chiedendo maggiori opportunità di dialogo e di confronto su questo argomento: Vorremmo - hanno detto concludendo il loro intervento - che il care del paziente avesse la stessa dignità del cure nella nostra formazione».
Dopo aver esposto lo stato dell’arte sulle direttive anticipate di trattamento, il c.d. testamento biologico, Massimo Petrini, docente di Bioetica e consultore del Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari, ha delineato le linee conclusive del seminario, sottolineando il rischio che le direttive anticipate riducano la relazione medico-paziente ad un rapporto di tipo legalistico. Si richiede quindi una maggiore attenzione e cura al processo del morire nell’ambito dell’assistenza. «Per questo - ha ammonito - serve formazione a tutti i livelli, cominciando dalle scuole di medicina alla formazione post-laurea. Le risposte ai nuovi dilemmi etici difficilmente possono essere preordinate e regolamentate, ma dovrebbero maturare in ogni singola situazione, in una relazione terapeutica autentica».
Ha concluso i lavori la moderatrice del seminario, Francesca Giordano, responsabile Area Bilancio Sociale Azienda Ospedaliera San Camillo-Forlanini di Roma che ha auspicato che tali istanze possano trovare attuazione anche a livello dell’organizzazione sanitaria, con sostegni formativi e percorsi assistenziali che rendano possibile il prendersi cura della persona e non solo della patologia.