«Le fondazioni bancarie si muovono tra Scilla e Cariddi e sono ancora alla ricerca di un proprio ruolo istituzionale». Ne è convinto Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte Costituzionale e professore all’Università di Torino, relatore lo scorso 23 novembre al secondo workshop sulle Fondazioni, promosso dal Centro di ricerche sulla cooperazione e sul non profit (Crc) dell’Università Cattolica e dal dipartimento di Scienze economiche e finanziarie “G Prato” dell’Università di Torino. Il presidente emerito della Corte Costituzionale ha sottolineato come questi enti, che dovrebbero essere indipendenti dal pubblico e agire con logiche diverse del privato, siano a rischio di essere condizionate o attratte nell'area dell'uno o dell'altro. E ha aggiunto: «Le fondazioni non hanno ancora rinunciato a essere soggetti di economia nazionale e, quindi, a gestire il loro patrimonio secondo quella finalità primaria che le caratterizza: la filantropia».
Una posizione, quella di Gustavo Zagrebelsky, non condivisa da Giuseppe Guzzetti, presidente della Fondazione Cariplo, intervenuto, nella seconda parte del workshop, alla tavola rotonda dal titolo: A che cosa servono le fondazioni? Secondo Guzzetti quel cordone ombelicale tra fondazioni e banche, denunciato da Zagrebelsky, si è rotto ormai da tempo. «La separazione tra enti e banche è un obiettivo che in questi anni è stato largamente perseguito», ha obiettato il presidente della Fondazione Cariplo. «La polemica del perché le fondazioni stiano ancora nelle banche è una polemica che non ci riguarda». Guzzetti è poi passato a spiegare l’interesse di questi enti a investire nel territorio, attività riassunta nell’espressione “localismo delle fondazioni”: «Abbiamo in progetto la realizzazione di 800 alloggi a Milano come sostegno dei fondi immobiliari per l’edilizia sociale. Non si eroga più sui bandi: la tendenza è scoprire i bisogni che nessuno compra, difendere la sussidiarietà». Anticipare, approfondire e poi interagire: questo il modus operandi delle fondazioni. «Non siamo uno sportello per ritirare i soldi – ha osservato il presidente -: siamo un ente che lavora con una strategia, con un disegno».
Da parte sua Felice Scalvini, presidente Assifero, ha suggerito che le fondazioni devono saper svolgere una funzione ordinatrice nell’esercizio delle attività benefiche. Un operato - gli fa eco Marco Demarie, responsabile della compagnia di San Paolo e del centro di documentazione sulle fondazioni - che va tenuto lontano dalle esigenze dei mercati economici e politici che sembrano “guardare corto”. «Oggi chi ha un progetto non deve per forza recarsi in un istituto pubblico – ha detto -, e presso le fondazioni si può contare anche su un atteggiamento sensibile sul lungo periodo». Per Walter Santagata, dell’Università di Torino, un problema da risolvere al più presto è quello della trasparenza: «I cittadini oggi non si fidano più – dice Santagata -. Sanno che i loro due euro non vanno dove vorrebbero finissero. Il loro rapporto con le fondazioni deve necessariamente migliorare». Mario Molteni, direttore dell’Alta scuola impresa e società dell’Università Cattolica, ha richiamato all’attenzione un fenomeno incoraggiante: la filantropia strategica: «Molte imprese familiari o a proprietà diffusa s’impegnano per cause importanti. Spesso però la vicinanza dell’attività pro-sociale con il business dell’impresa è vista con sospetto. È un atteggiamento sbagliato: un’azienda può mobilitare delle risorse come beni, conoscenze e strutture che già si hanno. Si moltiplica il valore sociale che si offre, ma con minori spese per l’attività». I dati raccolti da AssoLombarda dimostrano, infatti, che le fondazioni d’impresa nel nostro territorio sono oggi 131. Il doppio rispetto a dieci anni fa.