di Gianni Sibilla *
Ci hanno detto per decenni che le canzoni sono solo canzonette, che la musica è leggera. Ora ci dicono che quella odierna è ancora più impalpabile. Nelle parole, almeno.
«How dumb is popular music?». Ovvero: quanto è stupida la musica pop? È la domanda che si è posto il blog americano DataSmart. E la risposta è che le canzoni anglosassoni di maggior successo degli ultimi dieci anni hanno testi da terza elementare.
Ma la musica odierna è davvero così stupida?
DataSmart è un blog che si occupa di data visualization: ha cercato di trasformare in infografiche alcune tendenze della musica contemporanea. E i dati sono stati estratti usando un metodo serio e consolidato: l’indice di leggibilità di Flesch e di Kincaid, che determina quanto un testo scritto è comprensibile. Ovvero quali competenze richieda la sua lettura, basandosi su due variabili: la lunghezza media delle parole e la lunghezza media delle frasi.
Andrew Powell-Morse, l’autore della “ricerca”, ha lavorato su un campione di 225 canzoni, scelte tra quelle che negli ultimi dieci anni hanno passato almeno tre settimane al n° 1 della classifica ufficiale statunitense, compilata da Billboard. Il risultato è, appunto, che la maggior parte dei testi delle hit ha una complessità da third grader.
La ricerca non ha nessuna valenza scientifica, evidentemente, pur basandosi su uno strumento ampiamente riconosciuto e usato nella linguistica. Analizza un campione ristretto, lasciando fuori la sterminata quantità di musica pop che viene prodotta al giorno d’oggi. E si occupa solo di una parte delle canzoni: le parole, ignorando la musica, l’interpretazione, i significati incarnati dai cantanti attraverso le loro performance, il modo in cui i cantanti comunicano attraverso i media. Tutte cose che non si possono ignorare, quando si parla di musica pop.
Ma è sicuramente un risultato suggestivo. È però sufficiente per dire che la musica pop odierna fa schifo? O anche solo che è peggio di quella di una volta? E, soprattutto: hanno senso, queste domande? Quale che siano le risposte, l’analisi offre diversi spunti per provare a capire cosa sia la musica contemporanea. (…)
La semplicità linguistica delle canzoni pop non è necessariamente un disvalore; va contestualizzata, non generalizzata o assolutizzata. Peraltro, fare musica davvero pop, semplice ma non banale e già sentita, è un’arte spesso più difficile da maneggiare del fare musica complessa, intellettuale e con mire “alte”.
Non serve una ricerca scientifica o non bisogna essere musicisti per provarlo: basta l’esperienza da ascoltatori comuni a ricordarci che spesso una canzone ci piace perché è diretta, ha una melodia memorabile, un suono contemporaneamente riconoscibile e originale.
Ancora più ideologico è giudicare le canzoni e la musica pop solo sulla base delle parole. (…)
No, la musica pop e le canzoni non sono fatte solo di parole. Le “spie del linguaggio, del pensiero e della realtà” sono anche i suoni e i modi in cui i cantanti ce li porgono assieme alle parole.
Il pop è musica, appunto; è l’interpretazione di un cantante: si pensi a come due canzoni possono, anzi devono, essere diverse nella versione di due artisti, come spesso in una versione una canzone non decolla e nell’altra diventa immortale. Certo, le parole sono importanti: le lyrics delle canzoni sono da sempre agognate dagli ascoltatori e oggi sono uno dei primi argomenti sui motori di ricerca in rete. Ma non si può pensare di giudicare il valore culturale della musica odierna, e in generale di tutta la musica pop, solo su un suo elemento.
(…) La ricerca si basa su un campione di canzoni arrivate al primo posto della classifica statunitense negli ultimi dieci anni. Ma proprio nell’ultimo decennio è mutato radicalmente il modo in cui la musica viene prodotta e consumata.
Dal lato della produzione, una delle critiche “storiche” che si fanno al pop è di essere “fatto in serie”. E non si può dire che non sia vero: «Un numero ristretto di produttori artistici e autori creano una parte incredibilmente grande delle hit contemporanee, il che può spiegare perché molte di esse sembrino simili l’una all’altra», spiega un recente libro del giornalista John Seabrook, The Song Machine, Inside the Hit Factory.
Ma questo è un fenomeno tipico della musica pop, da sempre. Le boy band – che per i critici sono l’emblema del pop fatto in serie – esistono da ben prima dei talent show, e anche da prima di Mtv. Qualcuno si ricorda i Monkees? Vennero creati a tavolino negli anni Sessanta con una serie Tv, come la risposta americana ai Beatles. Ironia vuole che Michael Nesmith, uno dei Monkees, abbia avuto l’idea da cui è poi nata Mtv; inventando il format Tv PopClips.
Oggi è molto più complesso determinare cosa sia il successo di un artista o di una canzone. Viviamo nell’era dell’accesso infinito alla musica, con i servizi di streaming. La percezione del successo di una canzone e di un artista non è più determinata solo dalle vendite e dai numeri dei concerti, dai passaggi in radio o in Tv. Oggi contano i numeri dello streaming, le visualizzazioni su YouTube, i like su Facebook, i tweet, le condivisioni. Le stesse classifiche che l’analisi di DataSmart ha usato come campione sono cambiate nel corso degli ultimi anni, includendo progressivamente molti di questi fattori (YouTube, streaming) nel conteggio: arrivare in classifica nel 2015 richiede caratteristiche diverse da dieci anni fa.
Insomma, la musica è diversa. Sono cambiati i suoi linguaggi. Quelli verbali, ma anche quelli sonori, interpretativi, mediali. La musica e il suo consumo oggi vivono in un costante oscillare tra “retromania” e ricerca a tutti i costi della contemporaneità, nella forma digitale (download e streaming) e nella sostanza (parole, note e modi in cui i cantanti le mettono in scena).
Da un lato, c’è la santificazione del passato, il «si stava meglio quando si stava peggio», che nella musica pop corrisponde a un «non ci sono più le canzoni/i cantanti di una volta», e il conseguente fenomeno dell’ossessivo consumo del vintage sonoro, reso possibile dalla disponibilità immediata e ubiqua delle canzoni grazie alle nuove tecnologie. Un fenomeno, la “retromania”, raccontato da Simon Reynolds nel saggio omonimo.
Dall’altro lato, c’è la tendenza a ricercare la novità continua, a inglobarla in una forma consolidata, che la renda comunque riconoscibile: si pensi, per rimanere in tema di linguaggio verbale delle canzoni, al proliferare dell’uso di “#” in titoli e testi, con un tentativo di richiamare l’hashtag di Twitter, o a rendere immediatamente e naturalmente “social” i contenuti musicali. Addirittura, in una recente canzone si sente cantare «hashtag fuori c’è il sole, lo vuoi condividere?», con “hashtag” pronunciato così, all’inglese, su una melodia ovviamente molto solare (e molto banale).
Un mix tra vecchie mode – la ricerca del tormentone estivo – e parole e forme nuove: l’ambiguità della musica odierna è tutta qua. Tutto questo rende la musica odierna migliore o peggiore? Ma poi importa davvero che ci siano una “canzone d’autore” e una “canzone da terza elementare”?
O, «It’s only rock ’n roll, but I like it». Anzi, «It’s only pop, but I like it». Come diceva Edmondo Berselli: «Sono solo canzonette. Come no. Eppure attraverso quelle singolari combinazioni di parole e note, può scattare una sequenza di suoni che ci ha accompagnato un frammento di vita».
* Gianni Sibilla è il direttore didattico del master in Comunicazione musicale, primo corso post-laurea in Italia dedicato all’industria della canzone, attivato nel 2000 dall’Università Cattolica del Sacro Cuore. Nello stesso Ateneo, presso la Facoltà di Scienze linguistiche e letterature straniere, insegna Mercati e media musicali. Ha pubblicato diversi libri sull’industria e la comunicazione della musica, tra cui I linguaggi della musica pop (2003) e Musica e media digitali (2008). Giornalista musicale, scrive per rockol.it e collabora all’edizione italiana di «Wired».