di Andrea Bellieni *
Scegliere di “sacrificare” la propria estate per lavorare in una missione a qualcuno potrebbe sembrare una scelta folle, e un po’ difatti lo è; ma ci vuole anche una buona dose di follia per seguire i propri sogni. Così andare in Africa, per me giovane studente del terzo anno di medicina, fino ad aprile sembrava niente di più che un sogno; eppure basta cogliere l’occasione giusta, chiudere gli occhi, compiere quel fatidico passo che dà inizio all’avventura, per ritrovarsi in Uganda, nel cuore del continente africano.
Il rischio che viviamo nell’università di oggi è di vivere una vita scandita dal calendario accademico, da esami e fughe in libreria; ma l’università non è solo questo, non è un mero esamificio, bensì un tempo di crescita e di formazione soprattutto umana. L’esperienza di tre settimane proposta dal Cesi è una di queste, un punto di partenza almeno, un’occasione di crescita e di vita vissuta e non solo studiata sui libri. Tre settimane a contatto con un mondo diverso, più vero, più vivo, in cui le persone ancora si salutano per strada, si fidano e affidano agli altri, non temono di chiedere aiuto, vivono l’umiltà e la fede.
Se qualcuno mi chiedesse cosa mi ha colpito di più di questa esperienza, risponderei la terra rossa. Tutto in Uganda può ricondursi a questo. Appena arrivato all’aeroporto di Entebbe fai un respiro profondo e questa terra ti entra nelle narici copiosa rendendo l’aria pesante e ancor più grave in aggiunta agli scarichi delle macchine, numerose e sempre di fretta, incuranti dei pedoni che loro malgrado debbono spostarsi sia che attraversino la strada sia che camminino sui marciapiedi, subordinati ai motori ruggenti non troppo nuovi delle autovetture. Ci spostiamo assieme al dottor Michael e a Fabio, che ci sono venuti a prendere all’aeroporto, in direzione della missione, costeggiando con la nostra macchina, migliaia di persone che si spostano su questa terra rossa, ogni giorno, tutto il giorno, avanti e indietro lungo le strade quasi mai asfaltate, chi a piedi, chi in bicicletta, per lavorare, per cercare di portare a casa qualche scellino che garantisca alla propria famiglia un po’ di riso e polenta. Gente mai inoperosa che si inventa i mestieri più disparati per sopravvivere.
Attraversiamo Kampala e la terra ricopre le strade della capitale piene di piccoli negozi, bancarelle per lo più, in cui le persone vendono qualunque cosa ti possa venire in mente: frutta, divani, carne, mobili, moto, frigoriferi. Ogni cosa sembra scaturire da questa terra rossa che tutto colora: gli edifici, le macchine, le persone. Passano un po’ di giorni, tra la missione di Padre Giovanni “John” Scalabrini e il Benedict Medical Center, edifici di mattoni rossi costruiti con l’unica cosa veramente abbondante: la terra, simbolo di rinascita e voglia di andare avanti; mattoni grezzi cotti in forni artigianali, presenti in ogni angolo di strada, da chi, con sudore e speranza, cerca di costruirsi una sistemazione un po’ più dignitosa lontana idealmente dalle baracche di Kireka dove le case di legno e fango sono un lusso.
Lavoriamo in ospedale dalle 8 del mattino al pomeriggio inoltrato, tra ward round, Opd (out patient dipartment), maternity ward e il laboratorio di analisi. Il personale altamente qualificato dell’ospedale ci accompagna sempre, ci istruisce sulle più comuni malattie locali e su quelle meno comuni che ci troviamo davanti; cerca di mostrarci tutto il possibile e soprattutto la medicina, quella vera dei reparti, della pratica più che dei libri. Per quanto lo studio sia parte essenziale della nostra formazione di medici, da nessuna parte trovi la definizione di sofferenza, del disagio che prova la persona ricoverata che ti trovi davanti in quel momento, non un riferimento a come comportarti e approcciarti ad essa, non una riga su come utilizzare le nozioni apprese davanti al letto del paziente, dove freddezza e lucidità unite a sensibilità ed empatia regnano sovrane.
L’impatto è duro: lavorare in un ambiente dove la pratica è tutto per mancanza di mezzi e soprattutto di fondi, con il proprio bagaglio che è ancora la medicina delle definizioni, è davvero difficile. Ma la gentilezza e la preparazione dei medici, degli officers e degli infermieri locali non ci fanno mai scoraggiare, tutt’altro. Ci insegnano le varie procedure, a maneggiare le cartelle, ci mostrano come comportarci nelle varie situazioni, e dopo poco più di 10 giorni iniziamo a muoverci, sempre affiancati, ma ormai semi-autonomi, per l’ospedale.
Gli stimoli non mancano. Vedere dal vivo pazienti con patologie non comuni in Occidente, entrare in diretto contatto con il problema dell’Hiv osservando come viene affrontato dal punto di vista umano oltre che professionale, doversi mettere in gioco direttamente supportando i medici di turno durante le emergenze è un’esperienza non facile da dimenticare. È stato strano e bello scoprire in Uganda un’Africa ben diversa dalla comune idea di paese incredibilmente arretrato e povero. La povertà esiste, certo, la fame esiste, l’arretratezza, le malattie, le condizioni precarie, tutte cose vere; ma esiste anche la voglia di lottare, la fiducia, la speranza, la fede e i sacrifici per andare avanti garantendo ai figli, seppur con un piccolo aiuto, cure mediche e soprattutto un’istruzione, e così un futuro.
“Non dimenticarsi mai di raccontare ciò che si è vissuto”, parole di Anna Frank che un’amica mi ha regalato alla fine di questa esperienza e che davvero riassumono i giorni trascorsi in Uganda e in particolare alla missione interagendo con persone meravigliose, da padre John al dottor Ocen Kennet, da Fabio a Jolly, senza dimenticare Ronald, Isabelle, Aisha, Ettore, Enrico, Serena, Silvia, Cinzia, Julius, dottor Grace, dottor Patrick, dottor Frank, sister Julie, sister Silvya, sister Jennifer, Arriet, mamma Angela e tutti i bambini, ciascuno con una sua storia, bella o brutta ma sicuramente ricca, pronti ad accoglierci a braccia aperte chi nel loro lavoro, chi nelle loro vite e a renderci partecipi di esse, per conoscerli davvero e soprattutto non dimenticarli.
Ero partito alla ricerca dell’Ubuntu, termine zulu che indica un'ideologia dell'Africa sub-Sahariana che si focalizza sulla lealtà e sulle relazioni reciproche delle persone; indica "benevolenza verso il prossimo"; una regola di vita, basata sulla compassione, il rispetto dell'altro. Rientro con la consapevolezza che esso si trova in ciascuno di noi solo se siamo capaci di ascoltare e vivere il prossimo, perché solo tramite gli altri possiamo scoprire ed essere noi stessi, o meglio, la parte migliore di noi: Umuntu ngumuntu ngabantu!
* 22 anni, di Reggio Calabria, iscritto al quarto anno di Medicina, sede di Roma - Collegio Nuovo Joanneum