di Francesco Visintainer*
Il taxi all’uscita dell’aeroporto di Beira è uno solo e noi siamo cinque, tre italiani e due olandesi con i rispettivi bagagli. Dobbiamo raggiungere Dondo, cittadina di circa 80mila abitanti ad una quarantina di chilometri da Beira. Qui ha sede la Fondazione Lusalite Vida, partner dell’organizzazione Cisv International, responsabile del nostro progetto di volontariato internazionale: International People’s Project Mozambique. Dopo una trattativa tra il paradossale e l’esilarante con il tassista, il fratello, lo zio e i rispettivi facchini di questo, cercando di farci capire con un po’di portoghese, un po’ d’inglese e un po’ d’italiano, partiamo. Stipati e ammucchiati dentro questa vecchia Ford lasciamo l’aeroporto. Imbocchiamo lo stradone e ci immergiamo nel verde, come abbracciati da palme e arbusti. Sono totalmente spaesato e affascinato al tempo stesso. Con lo sguardo cerco ingenuamente palazzi e condomini, come dei punti di riferimento ma trovo solo palme e foresta. Il mio stato d’animo è evidente sul mio volto e il tassista voltandosi verso di me e sorridendomi con i suoi denti bianchissimi esclama soddisfatto: «Bem-vindo in Mocambique!». Gli sorrido e mi sciolgo, come se per un attimo, nella reciproca curiosità e timidezza di chi studia qualcosa che vede per la prima volta, ogni differenza tra noi fosse sparita.
Quando raggiungiamo Dondo, in lontananza vediamo l’ingresso del compound dove saremo alloggiati. È un vero e proprio villaggio coloniale, indipendente dal resto della cittadina di Dondo. Nel 1975, a seguito della proclamazione d’indipendenza, molti portoghesi lasciarono il Mozambico, abbandonando un Paese privo di infrastrutture e stabilità sociale in balìa di se stesso da un giorno all’altro. Lo stesso è successo anche qui a Dondo dove, il simbolo della colonizzazione europea, un’isola felice di villette, campi da tennis, un parco giochi e un vecchio circolo, dove ci si trovava a giocare a biliardo, sono rimasti deserti dall’oggi al domani. È da qui che la Fondazione Lusalite Vida ha deciso di ripartire nel 1998. Finalmente raggiungiamo il resto del gruppo, non vedevo l’ora. Siamo una trentina di ragazzi tra i venti e i trent’anni provenienti da nove paesi, dall’Egitto agli Stati Uniti, dalla Germania al Brasile, e ancora dall’Italia, dalla Danimarca, dal Portogallo dall’Olanda e dalla Francia. Tutti abbiamo una gran voglia di iniziare, di metterci all’opera fianco a fianco con gli abitanti di Dondo.
Durante tutta la nostra permanenza abbiamo lavorato su tre progetti. Parte di noi era impegnata nella costruzione di un compost. In Mozambico lo smaltimento dei rifiuti è un problema molto serio e, soprattutto nelle zone rurali, questi vengono bruciati individualmente dalle famiglie. Costruire una piccola struttura dove poter portare i rifiuti organici e vegetali, ottenendo in cambio del fertilizzante per i campi, ha dato un forte messaggio e ha suscitato l’interesse di tutta la comunità essendo l’agricoltura la base del sostentamento.
Un secondo gruppo ha collaborato con il centro di accoglienza per i più di centocinquanta bambini della zona in cui opera la fondazione. Proprio quelle sale che un tempo erano luogo di svago e intrattenimento per i coloni europei, oggi, grazie all’operato della fondazione, sono diventate centro e punto di riferimento per la comunità. Qui vengono garantiti due pasti, colazione e pranzo, fondamentali in un Paese che soffre il dramma della malnutrizione. Inoltre vengono proposte delle attività ricreative e ludiche volte a stimolare e coinvolgere questi bambini che quasi mai ricevono le necessarie attenzioni dalla famiglia. L’educazione e la formazione costituiscono una delle questioni più cruciali per il Mozambico che presenta un analfabetismo che sfiora il 60%. Dalla carenza nell’ambito dell’istruzione derivano drammatiche conseguenze, che non riguardano solo lo sviluppo in generale e lo sfruttamento delle risorse che il paese avrebbe, ma anche altre problematiche come l’inarrestabile diffusione dell’Aids.
L’insufficiente scolarizzazione è nella maggior parte dei casi collegata a una carenza nelle strutture che spesso costringe i bambini a camminare ore per poter raggiungere la scuola. Convinti della necessità e dell’importanza di aiutare la comunità in questo senso, un altro gruppo ha collaborato alla realizzazione di una scuola sotto la supervisione di Helena, la responsabile della fondazione, e con l’aiuto degli operai di Dondo. È proprio qui che ho lavorato anch’io. Quello che avevamo era un vecchio edificio, sporco, spoglio, cadente e circondato da arbusti, ma nel giro di tre settimane l’abbiamo completamente trasformato. Siamo partiti dall’esterno dove quello che era una vera e propria giungla è diventato il giardino della scuola circondata così da alberi e da un recinto di bambù. La parte più impegnativa ha però riguardato l’interno e sinceramente sono rimasto sorpreso di quello che siamo riusciti a fare in appena tre settimane. Dopo aver ripulito a fatica le pareti siamo passati a dipingere l’intera struttura e, dopo litri e litri di colore, la soddisfazione nel vedere quei muri diventare finalmente bianchi è stata unica. Grazie all’aiuto degli operai siamo riusciti anche a portare la corrente e a costruire il bagno.
Le difficoltà non sono mancate e, soprattutto da un punto di vista culturale, ci siamo spesso trovati di fronte a situazioni difficili da accettare o affrontare, dettate da una concezione della vita, dei rapporti sociali e del lavoro totalmente diversi dai nostri. Nonostante tutto, però, lavorare a fianco degli operai e delle donne che decidevano spontaneamente di aiutarci per dare un futuro migliore ai propri figli, ha lasciato un segno indelebile dentro di me, come se in realtà non fossi arrivato fino lì per aiutare qualcuno, ma a imparare qualcosa. Porterò sempre con me i loro sguardi, i loro ritmi, la semplicità elementare delle nostre conversazioni, i riti e i balli per scacciare gli spiriti maligni e il loro stupore misto a rammarico nell’apprendere e constatare che alla mia età non ero sposato, non avevo figli e per di più non sapevo come tenere in mano una zappa.
* 22 anni, di Trento, studente del quarto anno del corso di laurea di Giurisprudenza a Milano