Renzi, sconfitta di una leadership
di Damiano Palano*
Probabilmente non si dovrebbe interpretare l’esito di un referendum costituzionale come una consultazione su un governo o un leader politico. Ma nel caso del referendum del 4 dicembre è davvero impossibile non farlo, sia per le modalità con cui si è giunti al voto, sia per le proporzioni che ha assunto il risultato finale. La schiacciante maggioranza di contrari alla riforma costituzionale, prima ancora che sancire una vittoria del fronte del No, segna infatti una clamorosa sconfitta di Matteo Renzi.
Se l’ex sindaco di Firenze conquistò prima il Partito Democratico e subito dopo Palazzo Chigi con la grande promessa di andare al di là del tradizionale bacino elettorale del centro-sinistra, ‘pescando’ voti nell’area di centro-destra, senza al tempo stesso smarrire consensi sul versante di sinistra, è evidente che l’esito della consultazione referendaria ha sancito il tramonto di questa ambizione. Perché è difficile non notare come, al di là delle percentuali, i voti a favore del Sì (13.432.208) non siano molto distanti dalla somma dei voti riportati alla Camera nel 2013 dal centro-sinistra e dalla coalizione guidata da Mario Monti (13.640.934). Naturalmente nel corso di quasi quattro anni le geometrie tra le forze politiche sono cambiate. Ma in ogni caso Renzi non è riuscito nell’impresa che si proponeva (o, quantomeno, ha perso verso sinistra quel poco che ha conquistato sul versante di centro-destra). E d’altronde gli avversari “populisti” che puntava a indebolire appaiono oggi ancora più forti di quattro anni fa.
Osservata con distacco, la vicenda politica di Matteo Renzi non può essere considerata probabilmente solo come un’eccezione italiana: in qualche modo conferma ancora una volta quali sono la forza e i limiti della personalizzazione della politica. In una fase storica in cui le grandi appartenenze si sfaldano e in cui i partiti di massa sono ormai un ricordo del passato, la politica può sopravvivere solo grazie a leadership carismatiche, attorno alle quali costruire messaggi di cambiamento radicale e uno storytelling entusiasmante. Ma in tempi di crisi, qualsiasi storytelling è destinato a rivelarsi ben presto solo un effimero mantello retorico gettato sulle spalle di una politica debole, del tutto incapace di modificare la realtà. Così come altri leader europei hanno visto dissolversi quasi fulmineamente la loro legittimazione, anche Matteo Renzi – salito meno di tre anni fa a Palazzo Chigi come “rottamatore” e come paladino del “Paese reale” – ha finito col diventare il simbolo stesso, più che della “casta”, di una politica incapace di mantenere le proprie solenni promesse.
* docente di Scienza politica nella facoltà di Scienze politiche e sociali
Gli effetti di uno scenario tripolare
di Nando Pagnoncelli *
«Credo sia importante sottolineare tre aspetti. 1) Il livello di conoscenza dei temi della riforma costituzionale si è mantenuto modesto anche in prossimità del voto, probabilmente perché si tratta di argomenti complessi che richiedevano un adeguato approfondimento e una valutazione non facile degli esiti che si sarebbero generati.
2) Nella graduatoria delle priorità degli italiani la riforma costituzionale non era certamente ai primi posti, dove spiccano, occupazione, crescita economica, tasse e immigrazione. Alla luce di questi due elementi e della implicita domanda di semplificazione la campagna è stata giocata sul terreno della personalizzazione, sia da parte degli esponenti politici che dei cittadini. E ciò per una quota maggioritaria di cittadini ha trasformato la consultazione da referendum sulla riforma a referendum sul Presidente del Consiglio e sul governo. A questo proposito va sottolineato che lo scenario tripolare uscito dalle urne nel 2013 determina quasi sempre condizioni di partenza sfavorevoli ai singoli attori.
Lo avevamo già visto con il voto di Torino, dove al ballottaggio gli elettori di centro destra hanno votato in massa per la candidata del Movimento 5 stelle determinandone la vittoria. E lo abbiamo rivisto oggi: gli elettorati antagonisti si coalizzano contro il terzo determinando maggioranze eterogenee e frastagliate.
3) Infine, la grande affluenza sembra confermare due tendenze: da un lato la Costituzione mantiene un fondo di sacralità e, a dispetto dei toni esasperati della campagna che solitamente allontanano gli elettori dalle urne, molti elettori non hanno voluto rinunciare al diritto di esprimersi sulla Carta. Dall’altro, in questo frangente, si sono incontrate due domande di cambiamento: una sulle istituzioni l’altra sul quadro politico, e ha prevalso la seconda».
* docente di Analisi della pubblica opinione alla facoltà di Scienze politiche e sociali
Il fattore sociale ha pesato sul voto politico
di Alessandro Rosina *
Referendum britannico e presidenziali americane hanno mostrato non solo una maggior difficoltà a decifrare l’orientamento elettorale rispetto al passato, ma ancor più un ruolo rilevante delle differenze sociali, generazionali e territoriali. In generale, i migliori alleati del mondo che cambia - meno portati a chiudersi in difesa e più a coglierne le opportunità - sono le nuove generazioni e gli abitanti delle grandi città. Quando però l’offerta politica non risulta convincente la spinta di tali due componenti diventa debole, non in grado di compensare le resistenze della parte più cauta e diffidente della popolazione.
Giovani e grandi città non sono in ogni caso insiemi omogenei. Nelle seconde il divario tra centro e periferie ha la sua rilevanza, mentre tra i primi tendono ad essere diversi gli atteggiamenti in funzione dell’appartenenza sociale. Nel voto al Referendum costituzionale italiano il fattore esplicativo più rilevante è certo la vicinanza alla parte del PD che si riconosce nella guida di Renzi: un bacino elettorale non maggioritario che ha consentito di prevalere solo in Toscana, Emilia Romagna e Trentino. Ma questo non spiega tutto. Sul mancato sostegno al “sì” delle nuove generazioni ha pesato, tra quelli con più alto capitale umano, la debole convinzione sul merito dei quesiti e sul processo poco condiviso della riforma, mentre tra disoccupati e precari il voto è stato soprattutto di protesta. Insoddisfazione e malessere accomunano, in ogni caso, una larga fetta di Paese che ancora risente dell’impatto della crisi. Questo è coerente con la spinta verso il “no” di Sud Italia e periferie, a differenza di Milano e Bolzano dove ha invece prevalso il “si”. Favorevoli alla riforma anche gli italiani residenti all’estero, i quali - pur magari non del tutto convinti su merito e metodo - hanno voluto sostenere le ragioni del cambiamento strutturale di un paese che visto da fuori appare troppo bloccato.
* docente di Demografia nella facoltà di Economia
Si apre una fase dagli scenari incerti
di Angelo Baglioni *
Il risultato del referendum del 4 dicembre 2016 apre una nuova stagione politica in Italia, che vedrà il passaggio dal governo guidato da Matteo Renzi a un altro governo. Si apre una fase di incertezza politica, che non è mai vista bene dagli operatori economici e dai mercati finanziari. La reazione immediata della Borsa è stata molto composta, sia per quanto riguarda il settore azionario sia per i titoli di stato e il relativo spread con i titoli tedeschi. Probabilmente è prevalso un atteggiamento di attesa, per vedere quali saranno le prime mosse del Presidente della Repubblica e chi guiderà il governo che traghetterà il paese verso le elezioni. Certo è che la crisi che si apre pone seri interrogativi, almeno su tre fronti: banche, finanza pubblica e rapporti con l’Europa.
Sul fronte bancario, la questione più urgente è quella relativa al Monte dei Paschi, ma altre crisi locali (ad esempio quella delle due banche venete) necessitano di un governo che affronti la situazione con determinazione. Bisogna assolutamente evitare che si abbia una sensazione di vuoto di potere di fronte a scelte da compiere in tempi brevi, come quella di un eventuale intervento pubblico a sostegno di MPS. Sul fronte della finanza pubblica bisogna portare a termine la legge di stabilità e dare il segnale che i saldi del bilancio rimarranno sotto controllo. Su entrambi i fronti occorre mantenere aperto il dialogo con le istituzioni europee: Commissione, Eurogruppo, Bce. Non per sottomettersi, ma perché le soluzioni ai nostri problemi devono rispettare le regole e i rapporti con l’Europa. Altrimenti ci esporremmo alla deriva populista e anti-europea, e questa è l’ultima cosa di cui ha bisogno l’Italia.
* docente di Monetary Economics nella facoltà di Scienze bancarie, finanziarie e assicurative