Un nuovo test diagnostico sperimentale in grado di distinguere rapidamente i soggetti con tubercolosi attiva da quelli con infezione tubercolare latente. È quanto ha dimostrato un gruppo di ricercatori dell’Università Cattolica di Roma, dell’Istituto Nazionale di Malattie Infettive "L. Spallanzani" di Roma e dell’Università degli Studi di Sassari, in uno studio in uscita sulla rivista internazionale PLoS One, comunicato alla vigilia del World TB Day.
Se i risultati dello studio preliminare saranno confermati da un campione di popolazione più ampio, il nuovo sistema diagnostico, tutto italiano, potrebbe consentire di stabilire più efficaci strategie di controllo della diffusione della grave e riemergente patologia.
La tubercolosi è un’infezione causata dal Mycobacterium tuberculosis, batterio anche noto come bacillo di Koch, dal nome del suo scopritore (Robert Koch) nel 1882. Dopo l’infezione con il bacillo possiamo distinguere: la malattia attiva, clinicamente evidente e che - se non opportunamente curata - può portare a morte chi lo ha contratto, e l’infezione cosiddetta latente, che è asintomatica. Nel mondo si stima che non meno di 2 miliardi di persone abbiano contratto l’infezione nella forma latente e, fortunatamente, solo nel 5-10% di questi casi si può sviluppare la malattia tubercolare vera e propria. Le cause che determinano la comparsa della malattia, meglio nota in Italia come TBC, sono ancora sconosciute e una rapida diagnosi dei soggetti con tubercolosi polmonare, i soli che con la tosse, o semplicemente parlando emettono bacilli nell'aria circostante, è fondamentale per ridurre i tempi di cura e per limitare il diffondersi dell’infezione tubercolare alla comunità.
La diagnosi di infezione da Mycobacterium tuberculosis viene ancora oggi eseguita mediante il test intradermico della tubercolina, sviluppato agli inizi del XX secolo, usato come mezzo di screening per determinare la diffusione dell’infezione nella popolazione. «Il test della tubercolina - spiega Delia Goletti, 'corresponding' dell’articolo in press su PLoS One e che assieme a Enrico Girardi ha coordinato la sperimentazione presso l’Istituto Nazionale di Malattie Infettive ‘L. Spallanzani’ di Roma - presenta numerosi svantaggi, primo tra tutti non è in grado di distinguere tra infezione da Micobatteri ambientali (in genere non pericolosi per l’uomo) e da M. tuberculosis. Recentemente è stato introdotto un nuovo test, che prevede un prelievo di sangue, basato su proteine specifiche di Mycobacterium tuberculosis. Il nuovo test ematico, che prende il nome di test di ristimolazione linfocitaria con antigeni specifici basato sul rilascio di interferon-γ, è in grado di identificare in modo selettivo coloro che hanno tubercolosi, e quindi questo è un avanzamento rispetto alla tubercolina. «Tuttavia – continua la Goletti - il test di ristimolazione linfocitaria, così come il test della tubercolina, non è in grado di distinguere i soggetti con infezione tubercolare latente da quelli con malattia tubercolare attiva (polmonare o extra-polmonare), e quindi malati».
«I risultati del nostro studio - afferma Giovanni Delogu, primo autore dell’articolo, che assieme Giovanni Fadda ha coordinato il gruppo di ricerca presso l’Istituto di Microbiologia dell’Università Cattolica di Roma - dimostrano che è possibile distinguere i soggetti infettati da quelli malati, utilizzando un test in cui il sangue prelevato dal paziente viene messo a contatto con una proteina del bacillo, chiamata HBHA».
«La proteina HBHA che può essere utilizzata con successo in questi test – continua Delogu – deve avere caratteristiche particolari e per tali motivi è difficile da produrre. Ebbene, il nostro gruppo di ricerca ha sviluppato un protocollo sperimentale innovativo per ottenere quantità elevate di proteina in tempi rapidi e con costi limitati, aprendo la possibilità all’utilizzo di questo test su larga scala».
«In questo studio abbiamo ideato un algoritmo diagnostico innovativo, che prevede l’utilizzo della risposta alla proteina HBHA in combinazione con i test di stimolazione linfocitaria con antigeni specifici attualmente disponibili, e i risultati ottenuti hanno dimostrato che la risposta all’HBHA si associa allo stadio di infezione tubercolare latente e che ci permette - conclude Delia Goletti - di distinguere rapidamente coloro che necessitano o meno di una terapia per tubercolosi attiva».
«La proteina HBHA - spiega Stefania Zanetti, ordinario di Microbiologia all’Università degli Studi di Sassari - funge quindi da cosiddetto biomarker di infezione tubercolare latente e quindi per certi versi di protezione alla diffusione della TBC. Sarà importante comprendere quali sono i meccanismi che si innescano durante l’infezione e che possono determinare la comparsa o meno della malattia».
«Questi risultati – concludono i ricercatori – aprono la strada a uno studio multicentrico che in futuro pensiamo di estendere a un numero maggiore di pazienti, privilegiando alcune categorie a rischio, in cui è più urgente e complicato fare diagnosi. Pensiamo per esempio ai soggetti immunocompromessi, ai bambini e alle persone che vivono in Paesi in via di sviluppo».