La tubercolosi è la malattia infettiva più diffusa nel mondo e risulta la più importante causa di morte dovuta ad un singolo agente infettante. La popolazione pediatrica risulta tra le più esposte. Quale è l’incidenza della malattia nei bambini?
«Dai dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) risulta che i casi di tubercolosi sono aumentati da 7,5 milioni nel 1975 a 9,4 milioni nel 2008. Quasi un milione di casi riguardano i bambini, più del 10% del totale, il 75% circa dei quali vive in soli 22 paesi ad elevata incidenza. Questi dati si basano sui casi escreato-positivi, che, nei pazienti di età inferiore a 14 anni, rappresentano lo 0.6%-3.6% del totale, pertanto i dati mondiali riguardanti la fascia pediatrica sono ampiamente sottostimati. La classe di età maggiormente interessata è quella degli ultra-sessantacinquenni (prevalentemente italiani che vanno verosimilmente incontro a una riattivazione della malattia in seguito al calo delle difese immunitarie correlato all’età avanzata o alle terapie), in netta diminuzione, è quella dei giovani (24-35 anni) (prevalentemente immigrati), la cui incidenza è a passata da < 6 casi/100.000 abitanti nel 1995 a 8/100.000 nel 2006, per poi mantenersi costante negli ultimi anni. La fascia di età 0-14 anni è l’unica che ha mostrato negli ultimi anni un leggero aumento, passando da 2 casi su 100.000 abitanti negli anni 1999/2007, ai 2,8 casi su 100.000 abitanti nel 2008».
Le manifestazioni cliniche della tubercolosi dipendono soprattutto dalla localizzazione della malattia, poiché la tubercolosi, sebbene la localizzazione polmonare sia di gran lunga la più frequente, è una malattia potenzialmente sistemica, potendo interessare ogni organo e sistema. Quali sono gli organi che vengono in particolare colpiti nei bambini?
«La principale localizzazione della tubercolosi pediatrica è quella polmonare con linfadenopatia ilare, rappresentando il 60%-80% dei casi. Tra le localizzazioni extratoraciche, la forma linfonodale è la più frequente, rappresentando il 67% delle forme extratoraciche. Seguono la localizzazione al sistema nervoso centrale (13%), pleurica (6%), miliare e/o disseminata (5%) e ossea (4%). Le forme miliari e meningee sono più frequenti nei bambini di età inferiore ai 3 anni e/o nei bambini HIV positivi».
Quali sono i sintomi con i quali la TBC pediatrica si manifesta?
«La maggior parte dei bambini non sviluppa mai segni o sintomi; occasionalmente si può presentare con una febbre di basso grado e una tosse lieve. Più del 50% dei lattanti e dei bambini con quadro radiografico di tubercolosi polmonare da moderato a severo non presenta segni clinici e viene individuato soltanto in seguito alle indagini svolte nei contatti di casi-indice, di solito adulti affetti da forme altamente bacillifere. Tuttavia, i bambini, soprattutto di età inferiore ai 3 anni, hanno un rischio maggiore di progressione verso forme extra-polmonari (25-30% dei casi), rispetto agli adulti (15% dei casi)».
Come si cura la tubercolosi nei bambini?
«I principi di base del trattamento della malattia tubercolare nei bambini e negli adolescenti sono gli stessi di quelli adottati negli adulti. Sono utilizzati più farmaci in combinazione per ottenere una guarigione relativamente rapida e prevenire l’emergenza di una resistenza secondaria ai farmaci nel corso della terapia o superare quella eventualmente presente nel micobatterio nei confronti di uno dei farmaci usati. La scelta dello schema terapeutico dipende dalla localizzazione della malattia, dall’ospite e dalla probabilità di resistenza ai farmaci. In generale, si utilizza un regime a 3 farmaci (isoniazide, rifampicina, pirazinamide) per i primi due mesi, seguito da un regime a 2 farmaci (isoniazide, rifampicina) per i successivi 4 mesi per la tubercolosi polmonare; nel caso della meningite, è previsto un regime a 4 farmaci (aggiunta di un aminoglicoside o etambutolo o etionamide) per i primi due mesi, seguito da un regime a 2 farmaci per i successivi 7-10 mesi. Inoltre, si associa generalmente un prolungato trattamento (4-6 settimane) con farmaci corticosteroidei, data la importante componente infiammatoria tipica della meningite tubercolare».
E’ possibile attuare delle misure di prevenzione della malattia?
«La tubercolosi è una malattia ad elevata mortalità e morbilità, con un grosso peso economico sui sistemi sanitari nazionali, compreso quello italiano, dato i lunghi tempi di degenza spesso necessari, la durata della terapia, le sequele correlate ad alcune manifestazioni (soprattutto meningea e ossea) che richiedono percorsi assistenziali a lungo termine, soprattutto se la malattia è stata contratta in tenera età. Per questo motivo, il concetto di prevenzione della tubercolosi è quanto mai attuale. Il metodo migliore per attuare una reale prevenzione della malattia sarebbe la vaccinazione, attualmente attuata tramite il Bacillo di Calmette-Guérin, tuttora praticata alla nascita in molti paesi endemici per tubercolosi. Tuttavia, l’efficacia della vaccinazione è ancora limitata e, sebbene si siano molto intensificati gli sforzi per la produzione di un nuovo vaccino (il BCG è stato usato per la prima volta nel 1921), la probabilità di poter usare in tempi relativamente brevi un vaccino realmente efficace sembra remota. Pertanto, attualmente l’unico strumento a nostra disposizione è l’individuazione precoce dei casi, il loro trattamento e le indagini epidemiologiche nei contatti del “caso indice”, in modo di interrompere precocemente la catena di trasmissione dell’infezione».
«In questa nuova era della tubercolosi, i movimenti migratori giocano un ruolo innegabile come fattore di rischio per lo sviluppo dell’infezione e della malattia. Uno strumento di prevenzione che, a lungo termine, sarebbe realmente efficace, è lo screening per la tubercolosi degli immigrati al momento di arrivo nel nuovo Paese o di assunzione in posti di lavoro pubblici, l’utilizzo di questionari di screening per stranieri al momento di assunzione lavorativa, screening per la tubercolosi in scuole ad elevata frequentazione da parte di bambini immigrati. Tutto ciò non al fine di ghettizzare la malattia, ma di individuare i nuovi casi in fase precoce e diffondere una maggiore informazione sulla malattia, soprattutto tra le popolazioni più a rischio. Tale pratiche sono già utilizzate nei paesi più all’avanguardia (come la Svezia), ma sembrano davvero lontane da una reale attuazione nel nostro Paese».