Sono sempre più le aziende che si affidano a forme di comunicazione alternative per conquistare l’attenzione dei consumatori, in particolare di quelli più giovani. Tra queste, senza dubbio, il branded entertainment è quello che riscuote maggiore successo. Lo testimonia la rilevanza economica del comparto: a livello mondiale gli investimenti complessivi, nelle due forme di comunicazione che lo compongono (consumer event e brand integration), possono essere stimati in 65 miliardi di dollari nel 2011. Una cifra che nel 2014 potrebbe raggiungere gli 85 miliardi - il 17% degli investimenti totali in advertising previsti per lo stesso anno -, con un tasso medio annuo di crescita del 9,1%. Insomma, un connubio consolidato, se non addirittura vincente, quello tra mondo della pubblicità e industria dell’intrattenimento, reso ancora più intenso dall’affermazione della tecnologia digitale nella produzione e diffusione di contenuti audiovisivi.
La crescente integrazione tra messaggi commerciali proposti dalle imprese e contenuti di intrattenimento offerti dai mass media è stato uno dei temi portanti dell’incontro-dibattito “Dal branded entertainment all’entertainment brand: verso una nuova prospettiva”, che si è tenuto il 23 novembre nella sede milanese dell’Università Cattolica e a cui hanno partecipato docenti, manager e professionisti del settore. Tra i relatori, i professori dell’ateneo Roberto Nelli, Edoardo Teodoro Brioschi e Paola Bensi. Con loro, Francesco Iacono, consulente di Venture Marketing, Nello Bonomi, Sales & Marketing Manager Prodotti Office 3M Italia, Emanuele Finardi, di Zodiak Active, e Alessandra Guarnieri, responsabile Marketing Communication del gruppo Intesa Sanpaolo.
Se c’è un universo in cui il branded entertainment ha raccolto maggiori frutti, è certamente quello musicale. Un fenomeno commerciale a cui neppure la musica italiana si è sottratta. Come dimostra la ricerca empirica presentata da Paola Bensi, dedicata proprio a individuare la presenza di marche nei video musicali. L’obiettivo dell’indagine, condotta nel periodo compreso tra aprile e agosto 2011 su video trasmessi su MTV Italia, è stato verificare un’eventuale differenza tra i video di artisti italiani e di quelli internazionali rispetto alla tipologia di marche collocate al loro interno e alla prominenza del relativo posizionamento. Complessivamente 1.842 i videoclip visionati, di cui 236 analizzati e appartenenti a diversi generi musicali con una prevalenza di quello pop (41,5% del totale), seguito da rock (16,5%), dance (15,3%), rap/hip-hop (8,5%), soul (6,4%), pop/rock (5,1%). Dei videoclip presi in esame, 108 (il 45,8%) sono risultati quelli in cui è stata individuata la presenza di almeno una marca (138 brand differenti). Un inserimento che per il 92,4% dei casi è di tipo visivo e in quasi la metà (45,8%) è contraddistinta da un’alta prominenza, vale a dire la grande visibilità data alla marca, sempre ben riconoscibile perché collocata in posizione centrale e in grandi dimensioni.
Dati, dunque, che sembrano confermare come anche in Italia il branded entertainment vada a braccetto con il mondo della musica. Infatti, stando a quanto emerso dall’indagine, non sembrano esserci sostanziali differenze tra il numero di marche presenti nei video italiani e in quelli internazionali (72 inserimenti dei primi contro 153 dei secondi). Forse gli unici elementi di distinzione vanno riscontrati nella tipologia di brand utilizzati. Come spiega Paola Bensi. «Il numero degli inserimenti di marche appartenenti ai settori fashion, alimentari e bevande è più elevato rispetto a quanto riscontrato nei videoclip di artisti non italiani, i quali presentano invece un maggior numero di inserimenti di marche dei settori elettronica/informatica, entertainment e alcolici. Quanto alla cosiddetta prominenza, se nei video italiani quella più alta va alle marche appartenenti ai settori veicoli e strumenti musicali, in quelli stranieri sono i settori entertainment ed elettronica/informatica ad aggiudicarsela».
Tuttavia, al di là del caso specifico legato all’universo musicale, sono ancora molti quelli che guardano con sospetto questo tipo di comunicazione promozionale, a volte accusata di essere un po’ troppo intrusiva. Ecco perché su un punto i relatori sembrano concordare: bisogna abbandonare l’idea di considerare il branded entertainment una strategia di marketing “non convenzionale”, “alternativa”, “ibrida”. Piuttosto, suggeriscono, bisogna cambiare ottica e considerarlo tra i driver futuri della comunicazione di marca. A sostenerlo Roberto Nelli, docente di Marketing in Cattolica, e autore del libro L’evoluzione delle strategie di branded entertainment. Presupposti teorici e condizioni di efficacia, appena pubblicato dall’editrice “Vita e Pensiero”. «Dobbiamo cominciare a definire questa forma di comunicazione in maniera positiva - afferma - , costruendo una “nuova teoria”, ovvero una nuova rappresentazione di questa realtà allo scopo di renderla operativamente sempre più efficiente ed efficace, economicamente e socialmente giustificabile». È lo stesso professor Nelli a fornire qualche spunto di riflessione in questa direzione. «Se pensiamo che non ci troviamo solo di fronte a una moda passeggera, se crediamo che il consumatore lo possa apprezzare e persino desiderare, allora è importante che del branded entertainment non si faccia un utilizzo miope – isolato, occasionale o marginale – al solo scopo di conferire visibilità ed esposizione mediatica alla marca; che non vada limitato nelle sue potenzialità alla mera ricerca di una modalità per raggirare lo sfuggente consumatore e, infine, che non venga svilito con l’eccessiva enfasi riposta sulle dimensioni emozionali, spettacolari e sorprendenti con finalità prevalentemente auto-celebrative».