Nel mondo arabo i concetti di giornalismo e donna sono spesso in contraddizione. Rafiah Al Talei, senior producer della sezione di Public Liberties and Human Rights di Al Jazeera, è riuscita a scardinare le logiche maschiliste che precludono l’accesso alla professione alle donne, battendosi quotidianamente contro i pregiudizi che le giornaliste devono affrontare in molte redazioni arabe. In una lezione aperta, organizzata dal dipartimento di Scienze Politiche dell’Università Cattolica, Rafiah Al Talei ha spiegato a una platea di giovani studenti quali siano nei Paesi islamici/arabi gli stereotipi comuni legati alle figure femminili, in particolare a chi come lei sceglie di fare la giornalista professionista.
Rafiah Al Talei, quali sono i problemi che affliggono le donne arabe che vogliono intraprendere questa carriera? «È innanzitutto un problema culturale, perché nell’ambiente familiare è difficile trovare il supporto dei propri cari. Per le donne il percorso più canonico è quello di diventare un’insegnante o un’infermiera. È fondamentale anche per quelle dotate di una forte personalità avere qualcuno che le sostenga e che condivida pienamente la loro scelta. Infatti, le donne che decidono di fare le giornaliste devono mettere in conto che non avranno vita facile. Quando decisi di studiare giornalismo, mia madre all’inizio pensava che fosse un errore. Però ho avuto la fortuna, come molte altre ragazze omanensi, di avere una famiglia che mi ha lasciato la libertà di fare le mie scelte e di diventare una reporter».
Fare questo mestiere è molto impegnativo. Riesce a coniugare la vita lavorativa e famigliare? «Sono sposata con un giornalista da diciotto anni. Abbiamo avuto quattro bambini. Nei primi anni di matrimonio ritenevo che il nostro rapporto fosse in un qualche modo squilibrato. Lavoravamo nello stesso giornale, entravamo e uscivamo dalla redazione insieme, eppure quando rientravamo a casa dovevo occuparmi solo io dei lavori domestici e dei figli. Inoltre, era molto difficile quando dovevo viaggiare per lavoro, soprattutto quando i bambini erano piccoli, perché mio marito non era in grado di prendersene cura: un problema del resto comune nei Paesi arabi dove i maschi non sono educati ad accudire i propri figli. Quindi, nel corso degli anni ho dovuto combattere per cambiare la mentalità di mio marito. E adesso le cose vanno molto meglio».
Ci sono particolari discriminazioni che le donne devono affrontare nelle redazioni? «Il pensiero dominante è che le donne non siano in grado di occuparsi delle hard news, di andare nelle zone di guerra e di ricoprire ruoli decisionali nei vertici dei media. Pertanto devono dimostrare di essere forti e capaci come gli uomini. La situazione è migliorata con lo scoppio delle Primavere Arabe. Le donne hanno avuto un ruolo decisivo: partecipavano attivamente alle rivoluzioni, alla formazione dei nuovi governi democratici e alla stesura delle Costituzioni. In questo ambiente in cui si respirava un’aria di giustizia, libertà e uguaglianza si sono create maggiori opportunità e posizioni lavorative anche nell’ambiente giornalistico. Ma si è trattato di un trend che si è sgonfiato lentamente. Di recente, però, con l’emergenza dei rifugiati siriani ci sono state nuove aperture. In questa crisi umanitaria sono coinvolti molte donne e bambini: le giornaliste sono considerate più adatte per seguire questi eventi perché dotate di una maggiore sensibilità».
Dopo due anni trascorsi a Sky News, è passata ad Al Jazeera nella sezione che si occupa di diritti umani. Ha la libertà di trattare qualsiasi argomento o su alcuni temi vige la censura? «In Medio Oriente non è facile occuparsi di questione legate ai diritti umani. Ad esempio, la parità di genere, la povertà e lo sfruttamento dei lavoratori sono argomenti molto sensibili che spesso appaiono contrari alle norme culturali, sociali e religiose del mondo arabo. Capita spesso, però, che le storie che pubblichiamo siano apprezzate dai nostri lettori. Quando lavoravo negli Stati Uniti, invece, era tutto il contrario. Avevo la massima libertà di affrontare qualsiasi argomento. Non esisteva una policy redazionale perché le decisioni su quali storie seguire venivano prese dal caporedattore di turno. Fortunatamente la maggior parte dei giornalisti erano tutti di vedute aperte e liberali, quindi non ho mai avuto problemi».